Vincent van Gogh: II potere di trasformare in bellezza la fragilità
Vincent van Gogh apre una serie di articoli di approfondimento dedicati ai miti della storia dell’arte contemporanea.
Se gli storici dell’arte dovessero stilare una lista di artisti universalmente conosciuti, una sorta di Hall of Fame, di Olimpo in cui comprendere solo le personalità più note, tra esse sarebbe sicuramente presente Vincent van Gogh.
Tutti abbiamo visto almeno una volta una riproduzione della sua famosissima Notte stellata, o di una delle sue tante tele raffiguranti i suoi amati girasoli; grazie ai noti autoritratti abbiamo tutti presente il suo volto, con i penetranti occhi azzurri e i capelli rossi scarmigliati, così come conosciamo molto bene la sua storia, a volte tragica, spesso commovente, per alcuni addirittura più affascinante delle sue stesse opere.
L’immagine che si ha oggi di questo artista, tuttavia, insieme all’immensa fama che si è guadagnato a partire dal secolo scorso, e che non accenna a diminuire, spesso portano il pubblico a costruirsi un’idea molto romanzata della sua vita, idea che si allontana alquanto dalla verità. L’immagine di un artista estremamente “famoso”, riconosciuto ed apprezzato, se non universalmente, almeno in buona parte dei Paesi Bassi e della Francia, è un’idea totalmente errata e fuori contesto per quelle che erano le condizioni non solo di Van Gogh, ma degli artisti in generale, nella seconda metà del XIX secolo. La realtà era infatti qualcosa di molto diverso da tutto ciò, perché la fama e la fortuna degli artisti erano legate ai mercanti d’arte e a chi,in generale, decideva di acquistare le loro opere.
Vincent van Gogh riuscì a vendere un solo quadro mentre era ancora in vita e se questo, da un lato, può essere imputato alla sua fulminea carriera (si accostò alla pittura solo verso il 1880, dieci anni prima di morire suicida), d’altra parte non può non essere considerato un indizio della poca risonanza che le sue opere avevano presso il pubblico a quel tempo. L’opera in questione è Il vigneto rosso (o Vigna rossa), ora conservato al Museo Puškin di Belle Arti di Mosca, che nel 1890 fu acquistata, per la modica cifra di 400 franchi belga, da Anna Boch, una donna belga, sorella di un amico del pittore, probabilmente più per amicizia o per compiacere il fratello Eugène, che per un reale interesse verso il quadro. L’opera fu dipinta nel 1888 e rappresenta, appunto, un vigneto, in cui alcuni uomini lavorano al calar del sole; si possono riconoscere alcuni dei tratti tipici della pittura di Van Gogh, come ad esempio le pennellate corpose, visibili, i toni caldi utilizzati per la vegetazione e l’inconfondibile giallo del sole che si appresta a tramontare, un vero e proprio segno distintivo dell’artista. Nel complesso, tuttavia, si tratta di un’opera che, seppur conservando alcune delle caratteristiche più riconoscibili ed apprezzate della produzione di Van Gogh, non può di certo essere collocata tra quelle più note e neanche tra le più importanti della sua produzione, considerando che molto spesso non compare neanche nei manuali di storia dell’arte e solo raramente possiamo trovarla nelle monografie più complete dedicate all’artista.
Vincent van Gogh, quindi, morì convinto di non aver avuto alcun successo, di aver sostanzialmente fallito. L’artista si spense la notte del 29 luglio 1890, dopo che il dottor Gachet, un medico amico del fratello Theo che lo aveva preso in cura dopo il trasferimento ad Auvers-sur-Oise, non riuscì a estrarre il proiettile che l’artista si era sparato allo stomaco con una rivoltella due giorni prima, nel tentativo di uccidersi in un campo, dove spesso si recava per dipingere i suoi quadri.
Dopo la morte, tutte le sue opere vennero ereditate dal fratello Theo, che da mercante d’arte provò incessantemente a venderle e renderle note, fin quando, distrutto per la morte dell’amato Vincent, fu a sua volta ricoverato in una clinica parigina per malattie mentali, morendo poco dopo, il 25 gennaio 1891. È a questo punto che entra in scena Johanna Gezina van Gogh-Bonger, vedova di Theo e cognata di Vincent: fu grazie a lei e al suo operato che Vincent van Gogh divenne uno degli artisti più noti ed apprezzati di tutti i tempi, conosciuto in tutto il mondo. Johanna ereditò le circa 200 opere del cognato, e si adoperò per far accrescere il loro valore e la reputazione di Vincent, riallacciando i suoi contatti artistici, organizzando e finanziando in parte lei stessa le prime mostre sull’artista, donando i quadri a diverse retrospettive e rimanendo in contatto con alcuni amici di Vincent, come Émile Bernard, che la aiutò nella sua opera di promozione. Nel 1914 inoltre, Johanna pubblicò le numerose lettere che negli anni Vincent e Theo, da sempre molto uniti, si erano scambiati, raccogliendole in tre volumi. Il clamoroso successo che Vincent van Gogh ottenne a partire dagli anni Venti del XX secolo, che è ancora oggi in continuo crescendo, può in parte essere imputato allo sviluppo del mercato dell’arte, che si trovò progressivamente a poter e saper accogliere le opere dell’artista che aveva precedentemente rifiutato. D’altra parte, però, un ruolo decisivo lo ebbe proprio la pubblicazione della corrispondenza privata con il fratello Theo: queste lettere contribuirono a diffondere l’immagine di Van Gogh come di un pittore dall’animo delicato, che soffrì molto per la sua arte. Lo scambio epistolare tra i due fratelli finì per alimentare un forte culto della sua personalità che da subito si sviluppò intorno all’artista. Inoltre, proprio grazie a questa corrispondenza ed alle molte finestre sulla vita “privata” di Van Gogh, il pubblico moderno sembra essere riuscito a entrare ancora più in empatia con lui considerandolo spesso come un conoscente, quasi un amico. Nessuno di noi ha avuto, purtroppo verrebbe da dire, il privilegio di conoscere personalmente Vincent van Gogh, ma molto spesso ci accostiamo alle sue opere come se sapessimo esattamente che tipo di persone dev’essere stato e questo perché nessun artista come lui ha raccontato così intensamente le sue passioni, le sue gioie e le sue afflizioni private, quelle che avevano solo marginalmente a che fare con la sua carriera d’artista.
Pensiamo a lui come a un uomo la cui vita, così come quella di tutti noi, è stata caratterizzata da momenti di grande gioia, ma purtroppo anche da momenti molto difficili, di afflizione; un uomo fragile, ma non debole, impegnato nell’incessante e spesso dolorosa ricerca del suo posto nel mondo, cosi come lo siamo tutti. Dalle lettere a Theo, da ciò che di autografo possiamo leggere, van Gogh sembra essere stato un uomo esattamente come noi, con una vita tutt’altro che perfetta, ma con un’incredibile voglia di raggiungere il suo obiettivo, di realizzarsi e affermarsi come pittore.
Spesso tendiamo a dimenticare che ciò non vale solo per lui, ma per tutti gli artisti, e in generale per tutte quelle persone che noi definiamo “famose”, che sono passate alla storia per aver inventato, detto, scoperto qualcosa, o semplicemente per la loro personalità, o per il loro ruolo di rilievo in determinati frangenti storici: prima di tutto ciò, sono stati tutti semplicemente degli individui, esattamente come lo siamo noi, spesso con gli stessi problemi e le stesse insicurezze. È chiaro che quando si tratta di personalità che hanno fatto la differenza nel mondo dell’arte, della storia, della politica, della scienza, o comunque in generale di persone la cui storia viene ancora studiata oggi, o il cui lascito è ancora per noi fondamentale, ci dev’essere un qualcosa in più: sono state persone come noi sì, ma che sono riuscite a sviluppare maggiormente una qualche capacità che si è rivelata fondamentale, o magari a cogliere opportunità ad altri precluse.
Anche Vincent van Gogh, l’uomo fragile, schivo e, verrebbe da dire, anche un po’ sfortunato, a cui ci sentiamo così vicini, perché spesso sembra essere così simile a noi, aveva quel qualcosa in più: un animo straordinariamente profondo e sensibile, che lo aiutò a trovare la bellezza anche lì dove nessun altro l’avrebbe mai cercata. È qui che giace la radice, il motivo ultimo della sua arte, nella perenne ricerca di amore, di bellezza nelle cose più semplici, nella volontà di riuscire finalmente a trovare il proprio posto nel mondo, nella storia, in armonia con l’ambiente, quasi sempre naturale, da cui era circondato.
Il critico Wilhelm Uhde, in un emozionante passaggio della sua opera Van Gogh del 1937, ha definito la vita del pittore come:
La storia di un cuore grande e appassionato, interamente colmo di due cose: amore e sofferenza. Amore, non nel senso di preferenze e predilezioni, di compassione e gusto estetico, ma nella sua forma più profonda, la carità, una profonda e sacra relazione con le cose e gli uomini”.
Ecco perché Van Gogh ha una presa così forte e particolare sul pubblico, anche e soprattutto su chi conosce solo marginalmente la sua storia: la sua sensibilità, il suo amore per la natura in tutte le sue forme, la sua ricerca di bellezza anche nei momenti di fragilità più assoluta, tutto questo traspare dai suoi quadri. Prendiamo ad esempio quella che è senza dubbio la sua opera più nota, che abbiamo citato sopra, La notte stellata, dipinta nel giugno 1889. Van Gogh dipinge ciò che vede dalla finestra dell’ospedale psichiatrico a Saint-Rémy de Provence, dove era stato ricoverato dopo una crisi: un piccolo villaggio di poche case dai tetti aguzzi in basso e a sinistra un grande cipresso che si staglia contro un cielo pieno da stelle, il protagonista dell’opera. Si tratta di un vero e proprio paesaggio interiore, specchio delle emozioni dell’artista: il cielo è popolato da forze contrapposte, vortici sinuosi, che contrastano anche cromaticamente con gli aloni concentrici gialli delle stelle e della luna e che esprimono tutta l’angoscia, lo smarrimento, che molto probabilmente egli stava provando a causa della sua debole condizione psicologica, ma testimoniano anche la sua piena adesione, la sua passione sconfinata per la natura. La coppia cromatica azzurro-giallo compare anche in un’altra opera dal titolo Campo di grano con volo di corvi del 1890. Il quadro è bipartito dalla linea dell’orizzonte, che crea due fasce, quella inferiore del campo, dominata da un giallo intenso, quasi dorato, cifra stilistica caratteristica dell’artista, mentre quella superiore, che rappresenta il cielo, è caratterizzata da un blu notte molto intenso, che a tratti arriva addirittura quasi al nero, per restituire l’idea di un cielo torbido, cupo, minaccioso. Il senso di inquietudine che quest’opera comunica, soprattutto grazie alla scelta cromatica e alla particolare intensità dei colori, risulta ancora più acuito se si pensa che si tratta di una delle ultime opere dell’artista, che morì proprio dopo essersi sparato un colpo al petto in un campo di grano, non dissimile da quello rappresentato. Infine, come non citare i suoi famosissimi e numerosissimi studi sui girasoli, opere in cui van Gogh esprime spesso pura gioia, libero di utilizzare quel pigmento giallo che tanto amava e che è presente in quasi tutte le sue opere, soprattutto in quelle realizzate ad Arles dopo il 1888.
Il giallo risulta essere talmente presente e importante per l’artista, che alcuni critici hanno cercato di individuare una spiegazione medica al suo costante uso, arrivando addirittura ad ipotizzare che l’artista soffrisse di “xantopsia”, un disturbo visivo che causa la percezione di oggetti che sono in realtà bianchi come gialli e che gli fu presumibilmente causata dalle cure che gli furono somministrate per le sue crisi epilettiche. Molto probabilmente, tuttavia, si trattava solo di una preferenza personale: Van Gogh era attirato dal giallo, che considerava il colore dell’amore e della gioia, così come lo era dal girasole, quasi una sorta di alter-ego dell’artista, un fiore perennemente in cerca del sole, fonte di calore e di vita, così come lo era Van Gogh. Ecco, quindi, che le sue opere, al di là della loro immediata ed immensa bellezza, racchiudono e raccontano un mondo molto più complesso di quelle di qualunque altro artista, un mondo fatto di gioie, ma anche di fragilità e inquietudini.
Forse, dunque, la grandezza di questo straordinario artista risiede proprio qui: Vincent van Gogh seppe trasformare la sua fragilità nella bellezza che per tutta la sua vita tanto aveva ricercato, e per questo motivo non fu solamente uno dei pittori più importanti e talentuosi di tutti i tempi, ma fu anche uno dei miglior uomini che il nostro mondo abbia mai avuto l’onore di ospitare.
Immagine in evidenza: Vincent van Gogh, Self-portrait, September 1889, Musée d’Orsay, Paris (detail).