Sulla nostra pelle: come il cinema può influire sullo spettatore e sulla realtà dei fatti che racconta
Sulla mia pelle è l’opera seconda di Alessio Cremonini, presentata come film di apertura della sezione “Orizzonti” della 75. Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Il film è stato uno dei più apprezzati tra giornalisti e addetti ai lavori della Biennale 2018 e da un pubblico internazionale, attraverso la piattaforma Netflix. In attesa della 76. edizione della Biennale Cinema, proponiamo ai nostri lettori un’interessante chiave di lettura del film sugli ultimi giorni della vita di Stefano Cucchi.
Non pensiamo di poter andare a influire nel corso di un processo, però questo è un film che scuote le coscienze.
Nel corso di un’intervista rilasciata al programma E poi c’è Cattelan, Alessandro Borghi ha descritto così l’obiettivo del film Sulla mia pelle, in cui è protagonista nei panni di Stefano Cucchi. La pellicola ha raggiunto in pieno il suo scopo, quello di raccontare la vicenda in maniera neutrale, lasciando allo spettatore il compito di prendere posizione e di interpretare i fatti. Quelli di un ragazzo qualunque, che ha vissuto sulla sua pelle una storia fatta di omertà, indifferenza e abusi di potere. Cucchi aveva 31 anni quando, la notte del 15 ottobre 2009, venne arrestato dalle forze dell’ordine per detenzione di sostanze stupefacenti. Inizia così il suo calvario, durato sette giorni, che lo porterà alla morte nella notte del 22 ottobre.
Senza voler entrare nei dettagli dei processi tuttora in corso, il nostro obiettivo è quello di soffermarci sul ruolo che il film di Alessio Cremonini ha giocato all’interno di questa vicenda e di sottolineare quanto il cinema possa essere uno strumento efficace per raccontare al pubblico una vicenda reale.
Non è facile fare luce su una storia che deve ancora essere risolta, tanto più se la si vuole raccontare nella maniera più oggettiva possibile, senza scadere nella banalità della commiserazione, sicuramente il pericolo più grande in questi casi. Durante lo svolgimento del film, infatti, il regista ha scelto di evitare la rappresentazione del pestaggio di Stefano, immagini che avrebbero potuto distogliere l’attenzione dello spettatore dal protagonista, cercando invece di fare chiarezza sui colpevoli (una competenza che spetta alla magistratura). Proprio l’essenzialità e la sobrietà del film hanno consentito al pubblico di immedesimarsi nella persona di Stefano Cucchi, vivendo sulla propria pelle le sue emozioni, le sue paure e le sue problematiche.
La potenza del film è stata quella di coinvolgere direttamente lo spettatore, facendogli vivere da protagonista il calvario di un ragazzo abbandonato di fronte ai suoi problemi. L’assenza di giudizio che traspare nelle scene è il motivo principale del successo di questo film, amplificato dalla scelta di farlo uscire contemporaneamente al cinema e sulla piattaforma digitale Netflix. Un successo che non si è limitato agli incassi del botteghino, ma è arrivato a incidere sull’evoluzione delle vicende giudiziarie, a scuotere appunto le coscienze. Prima di tutto quella del comandante generale dell’Arma dei carabinieri Giovanni Nistri, che in una lettera alla famiglia Cucchi ha dichiarato di:
Avere la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto si faccia piena luce, e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi ha mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà.
La lettera di Nistri ha aperto la strada alle parole di Francesco Tedesco, uno dei carabinieri coinvolti nel processo, che a distanza di un mese dall’uscita del film ha ammesso di fronte ai magistrati le responsabilità dei suoi colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Nella dichiarazione, il carabiniere racconta i dettagli del pestaggio:
Al fotosegnalamento Cucchi si è rifiutato di farsi prendere le impronte: siamo usciti dalla stanza e il battibecco con Alessio Di Bernardo è proseguito, Cucchi ha dato uno schiaffo a Di Bernardo, uno schiaffo figurativo, ridicolo. D’Alessandro ha avvisato Roberto Mandolini (maresciallo dei carabinieri imputato di falso e calunnia nel processo bis per la morte di Stefano, ndr) che non voleva fare il fotosegnalamento e lui disse di rientrare. Di Bernardo e Cucchi hanno continuato a battibeccare e il primo gli ha dato uno schiaffo abbastanza violento, poi una spinta e il giovane è caduto. D’Alessandro gli ha dato un calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano. È a quel punto che riceve un altro calcio, stavolta in faccia.
Questa è la vittoria più grande di un film che, partendo dal desiderio di raccontare una vicenda in maniera imparziale, ha dimostrato che il cinema può essere il mezzo più efficace per scuotere le coscienze degli spettatori. È la prima volta nel processo Cucchi che un imputato, che ha assistito in prima persona al pestaggio di Stefano, decide di raccontare quello che ha visto ormai dieci anni fa. Le parole di Tedesco rappresentano l’ultimo tassello che si va a inserire nel puzzle della narrazione cinematografica. Grazie a questa testimonianza, il pubblico può completare la propria visione dei fatti, che il film aveva lasciato appositamente in sospeso, per scelta cinematografica e per assenza di prove.
Tutto questo però non sarebbe stato possibile senza la determinazione e il coraggio di Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano che, insieme alla famiglia e al legale Fabio Anselmo, ha reso possibile la realizzazione del film. La determinazione nel contrastare un’istituzione così grande e il coraggio di rendere pubblica una storia così intima. Una scelta che è stata ampiamente ripagata dal successo ottenuto dal film e dalle successive ripercussioni sul processo.
Ilaria ha commentato, a seguito della testimonianza del carabiniere Tedesco:
Dopo dieci anni di menzogne e depistaggi in quest’aula è entrata la verità raccontata dalla viva voce di chi era presente quel giorno. Le dichiarazioni e le intenzioni espresse dal comandante generale dell’Arma (il riferimento è alla lettera scritta da Nistri, ndr) ci fanno sentire finalmente meno soli. A differenza di quello che qualcuno dei difensori in ogni udienza dà ad intendere, chi rappresenta l’Arma non sono i difensori degli imputati ma è il loro comandante generale, che ora si è schierato ufficialmente dalla parte della verità. Sentivo il carabiniere Tedesco descrivere come è stato ucciso mio fratello e il mio sguardo cercava quello dei miei genitori che ascoltavano raccontare come è stato ucciso il loro figlio. È stato devastante, ma a questo punto quanto accaduto a Stefano non si potrà mai più negare.
Parole che confermano la posizione di Anselmo sull’importanza del film. L’avvocato infatti ha affermato che, mentre il processo si avvia a conclusione, la storia di Stefano raccontata dal regista Alessio Cremonini resterà per sempre.
Sulla mia pelle è un film che conferma le potenzialità narrative del cinema, in grado di raccontare una storia mediante l’uso di immagini forti che trascinano lo spettatore all’interno delle vicende. Crediamo quindi che il cinema debba ripartire dall’esempio di questo film, affinché storie come quella di Stefano non restino confinate alle aule del tribunale ma diventino storie di tutti. Perché la pelle di Stefano è la pelle di tutti noi.
– Giovanni Sammarco e Lorenzo Lecce
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Cover photo: courtesy Mostra del Cinema di Venezia
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