Sandro Campani: lo scrittore appassionato di Lynch
Avete mai sentito parlare di una Lince nei boschi?
Potrebbe essere il segreto che sta dietro al nuovo libro Il Giro del Miele di Sandro Campani che segna il suo passaggio a Einaudi? Scopriamolo insieme!
Sandro Campani, come nascono la storia e i personaggi che racconti nel Giro del miele?
L’ispirazione è nata da alcune immagini che non se ne volevano andare. La visione di una coppia racchiusa nella propria tenerezza in un rifugio alpino. La visita inaspettata di una lince. Era davvero una lince? A me e mia madre parve di sì; ci attraversò la strada una notte, in un luogo in cui, io e il mio migliore amico d’infanzia che non c’è più, passavamo molti pomeriggi. La visione di un ovile abbandonato, dove alcuni faggi muoiono in mezzo a un ammasso di lattine arrugginite e i ganci di legno ricavati dai rami scortecciati stanno appesi a un palo, impregnati di sangue secco. Forse, anche la falegnameria che c’era nella mia borgata quando ero piccolo. Mi capita sempre che le storie nascano non da una programmazione cosciente ma da folgorazioni. Che, invece di andarsene, mi restano in testa, fino a che non si forma una relazione imprevista.
Cos’è il fuoco per Sandro Campani e perché hai scelto proprio quest’elemento per l’incipit de Il giro del miele?
Il fuoco è l’elemento che tiene insieme tutto il libro, che è costruito attorno a una unità di luogo (la stanza di Giampiero in cui arde il camino) e ha una struttura circolare. Il romanzo si apre sul sogno che Giampiero fa in merito al fuoco e si chiude quando lo stesso Giampiero, prima di uscire dalla casa che è stata teatro della storia, indugia per ravvivare le braci. Il fuoco è la rassicurazione del focolare, la sicurezza del calore e della luce contro il buio e il freddo fuori, quel che ci illudiamo di poter ritrovare e mantenere. La protezione che ci immaginiamo avessimo quando da piccoli i nostri genitori ci tenevano. Però il fuoco è anche la potenza distruttiva, il pericolo, la possibilità di un male devastante. (La mano di Giampiero, bruciata e inutilizzabile a causa di un incendio, che lui vede come un segno). Il fuoco è utilizzato nei due sensi.
Hai scelto come narratore Giampiero, riuscendo a dargli una personalità limpida solo in apparenza; come mai lo hai preferito all’irruento e ingenuo Davide, anagraficamente più vicino a te?
L’intuizione di Giulio Mozzi, che l’aveva letta, fu di domandarmi: «Chi la racconta, questa storia?». Giulio intendeva che lavorare su un punto di vista interno alla storia l’avrebbe fatta crescere in estensione e in profondità, e avrebbe reso più complessa la lingua. Mi sono chiesto quali possibilità diverse per il testo si potevano aprire a seconda del narratore che avessi scelto, e mi sono reso conto subito che il narratore doveva essere Giampiero. In più lo sguardo di Giampiero è più comprensivo, più maturo, più complesso, siccome narra dall’interno. Per questo, attraverso il dialogo, entra in gioco la voce di Davide, una voce che è molto più incostante, sussultoria, violenta.
Scivoliamo fuori dal romanzo: quanto può essere pericoloso un uomo come Davide per una donna e per se stesso?
Tanto. In generale, l’amore crea situazioni pericolose, quando ha che fare con il possesso più che con il rispetto. Però, più che la violenza manifesta, per Silvia, a distruggere tutto, è il fatto che Davide visiti un mondo buio che lei ha scelto di rinnegare, che non vuole più vedere, un mondo dove c’è la possibilità della violenza, dietro ogni angolo. Davide è un buono, ma non sa far fronte al male che ha dentro. Illudersi di cambiare gli altri è sempre pericoloso, e la Silvia se ne accorge per tempo. Purtroppo, ogni giorno si vedono situazioni di violenza ben più esplicita in cui le vittime sono le prime a scusare il proprio carnefice. È una cosa terribile.
Quali autori consideri tuoi maestri?
Sono cresciuto in un paesino molto piccolo, in una borgata che d’estate si animava grazie ai villeggianti ma d’inverno aveva quattro case abitate: la nostra, quella del falegname, quella di una vecchia che io e mio fratello credevamo strega e infastidivamo continuamente, e più su, ma già sulla strada, un bestemmiatore con una gamba dritta. Essere bambino in un posto isolato ti porta a osservare tantissimo, forse; in più, sono cresciuto leggendo scrittori di luoghi – Steinbeck prima di tutto, che trovai in casa, insieme a Pavese – poi Faulkner, Flannery O’Connor, Fenoglio; leggendo questi libri, trovavo posti come il mio; più avanti mi sono ovviamente innamorato di Cormac McCarthy: gli scrittori bravissimi nelle descrizioni mi danno ebbrezza. Poi, nella pratica, ho avuto dei maestri presenti, persone con cui potersi confrontare e da cui andare a bottega. Gli scrittori da cui direttamente ho imparato e sto imparando qualcosa. Da Emidio Clementi, Ugo Cornia e Giulio Mozzi. Senza Giulio Mozzi, a un certo punto, credo che avrei anche smesso di scrivere.
Come hai vissuto l’esperienza con Trovautore?
In questo giro per l’Italia bellissimo e lungo che ancora continua, la sera di “Trovautore” è stata una delle più belle in assoluto. Lo dico perché le domande che Francesco Severa mi ha rivolto, hanno toccato dei punti inconsueti e per me centrali. Perché c’erano persone attente e gentili, perché ho potuto rivedere Fabrizio Patriarca, gran compagno di risate e discorsi letterari e conoscere persone splendide con una grande passione per la parola. Poi, mi ha affascinato Fiuggi e il verde che circonda le case, la decadenza dolce delle vie alberate, delle architetture termali e dei castagni secolari. Aver la malinconia addosso, ridere e star bene, tutto insieme. È stata una sera speciale per me, per cui mi viene da dire ancora grazie.
Ringraziamo Sandro Campani e auspichiamo di incontrarlo di nuovo presto per parlare del suo prossimo romanzo.
Intervista a cura di: Giuseppe Giulio
Credits: Ufficio Stampa Einaudi