Rifugi, campi, tende: l’emergenza va in mostra al Moma
Nel secolo delle migrazioni globali, una mostra al Moma di New York esplora la nuova concezione dell’abitare, della funzione abitativa transitoria. L’architettura che protegge si chiama “Insecurities: Tracing Displacement and Shelter”, un percorso di istallazioni, foto d’autore, design messo in pratica e sale trasformate in rifugi.
Il fenomeno delle migrazioni diventa così materia da esposizione, installazione, pezzo d’arte. Che attraverso l’architettura racconta, in prima persona, di rifugiati, di migrazioni e delle loro storie.
Oggi è la casa, quella temporanea, quella d’emergenza a parlare.
E domani, sarà chi vi transita a prendere parola? Oppure a organizzare una mostra che racconti la loro esperienza? Magari qualcuno tra quei 5 milioni e mezzo di stranieri presenti in Italia (Dati riferiti al 2015 del Centro Studi e Ricerche Idos).
Sono fatta di sabbia, sacchi di terra sgretolata uno sopra l’altro. Fingo di essere pietra, ma sono un mero sacchetto. Mi chiamano Sandbag Shelter e posso vantare di essere un miscuglio di architettura tradizionale iraniana e di innovazione di design. Mi ha disegnato il vestito Nader Khalili e nasco in quattro ore di lavoro, Si siedono sul mio corpo circolare migliaia di profughi Afghani qui a Zabol, nel campo profughi di Dalakee, nella provincia di Bushehr in Iran. Faccio sentire il mio tepore marino per qualche giorno a quei corpi stanchi che non si lavano da giorni. Servo in un altro posto? Mi smontano e in quattro ore sono di nuovo pronta!
Tutte in fila, righe e colonne squadrate. Sulla terra rossa siamo tanti puntini bianchi. Da lontano identiche, da vicino ognuno ha la sua funzione. Ci siamo accampate qui dal 1991, nel più grande campo per rifugiati del mondo, Dadaab in Kenya. Eravamo in tre e pensavamo di non dover servire per molto, ora siamo 2000 tende. Un’emergenza continua praticamente. Per i migranti siamo casa: lo vediamo perché stendono i loro panni tirando un filo tra di noi, perché fanno falò cercando di portare allegria. Chi sogna di muoversi, di cercare ancora un futuro può dire qui per un attimo: home.
Piacere, sono Shelter, Better shelter prototype. Ho un grande sogno: migliorare la vita di chi viaggia in condizioni stremanti. Di chi si è fatto una traversata su una carretta del mare, di chi cerca di proteggere i suoi figli anche se sta perdendo la sua vita. Voglio assomigliare a un campeggio con materassini, parquet e cuscini morbidi. Sono più lungo che alto, ma non è per forza un difetto. Impermeabile e antisismico, mi alleno per essere atletico. Certo ci si arrangia al mio interno, seduti vicini vicini, ma cerco di illuminare le serate di chi scappa dai conflitti. Mi ricordo di una sera in cui dei rifugiati nigeriani hanno preparato il thè tipico per tutti, il profumo riempiva lo spazio intero e il freddo di Belgrado è sembrato meno rigido. Giriamo il mondo io e i miei sosia, senza sosta nelle zone ai margini della società, sembra una missione impossibile ma è la nostra.
Rifugi, tende, posti per mettersi al sicuro.
Pratici, componibili, replicabili e per di più belli.
Possono essere una risposta all’emergenza?
Ma quanto dura l’emergenza?
Rifacendoci a Guy Debord si potrebbe dire che la spettacolarizzazione della realtà (perché non dimentichiamoci che parliamo di una mostra d’arte contemporanea) continua a giustificare i rapporti sociali.
Cambiano i media, le forme, i contesti. Ma i risultati no.
O forse sì?
Forse, azzardiamo noi, forse siamo ad uno stadio ormai così avanzato di riflesso nel riflesso, di riproduzione, di reiterante mise en abîme, che se allo storytelling dell’invasione risponde la voce delle forme, allora l’architettura può arrivare forse a fare un discorso più pregnante delle nostre parole. A trovare una risposta a quella domanda.
Magari sostituendo il termine “emergenza” con una definizione diversa, più attuale, più onesta.
Forse.
Ma che effetto farebbe ad una famiglia di rifugiati appena sbarcati entrare al Moma oggi?
Sarebbe interessante scoprirlo. E senza forse questa volta.
Photo: per concessione di MoMa Press, parte della mostra Insecurities: Tracing Displacement and Shelter