Guida alla pubblicazione sicura con una grande casa editrice italiana: il metodo Jack London
Dopo sette ore di intensissima, ininterrotta scrittura, diciamo dalle otto di sera, circa, alle tre del mattino, mi prendo finalmente un attimo di meritata e necessaria pausa: sono in preda a una emicrania fortissima, quasi insostenibile – ripeto: dopo sette ore intense e ininterrotte di scrittura, ma davvero, senza tregua. Non è cosa da poco. Né da tutti.
Mi massaggio le tempie. Va subito meglio. Mi viene voglia di uscire, nonostante l’orario. Di scatto mi tiro su dalla sedia, chiudo il portatile, infilo le scarpe, il cappotto sopra la tuta felpata, e mi fiondo letteralmente fuori dall’appartamento.
Appena chiudo il portone alle mie spalle mi viene in mente di aver lasciato smartphone e cuffie sul letto. Inspiro pesantemente e tiro un paio di bestemmie a denti stretti. Non mi va proprio di risalire in casa, prenderli, riscendere. Metto le mani in tasca. Digrigno i denti. Senza convinzione, mi dico: sticazzi. E con passo deciso, nervoso, veloce, mi avvio verso destra, in direzione dell’edicola, che in ogni caso non riesco nemmeno a vedere, perché è buio pesto, nessuna luce accesa, i lampioni totalmente fuori uso, come sempre.
Ci tenevo, maledizione, a distrarmi con un po’ di musica che non fosse ambient, dark ambient o doom ambient – cioè i generi musicali che ascolto per scatenare in me la trance artistica che mi serve per scrivere, per entrare in sintonia coi miei mondi immaginari, assecondare l’ispirazione, e insomma tutta queste serie di cose fondamentali per dominare i pensieri e metterli al servizio della mia – così la chiamo – “voce letteraria”. Dopo più di sette ore ininterrotte e intensissime di ascolto di dark, doom e semplice ambient – ripeto: più-di-sette-ore –, mi sembra, no, non sembra, è proprio così, sento ancora una sorta di oscuro brusio ovattato, ovvero il rumore, o meglio il suono, o forse no, meglio rumore, che caratterizza i loop ambient: ma in strada non c’è nessuno, non passa mezza automobile, sono in un quartiere residenziale; non c’è verso, insomma, che il rumore che sento sia reale. Mi è rimasto impresso, in memoria, come se il tasto della ripetizione automatica fosse incastrato. Maledizione, mi servivano proprio, smartphone e cuffie. Sono il solito sbadato con la testa fra le nuvole e il cuore tra… tra le parole. Ecco. Che scemo. Il cuore tra le parole…
Ma questo, alla fine, non è l’importante. L’importante è martellare-sui-tasti, vomitare-le-parole-sulla-pagina, liberare-il-demone. Scrivere, scrivere, scrivere. Se per una notte, o anche per un giorno intero, qualche allucinazione uditiva si fa gioco di me, se questo è il piccolo prezzo da pagare, suvvia, poco mi importa. Il romanzo che sto finendo: di questo mi importa.
Si tratta del mio settimo romanzo. Quello che – non sono sicuro: sono più che sicuro – mi garantirà l’accesso al vero, esclusivo Circolo degli Scrittori. Non parlo delle centinaia e centinaia di autori che pubblicano sulle rivistine insignificanti, per le casette editrici microscopiche che stampano cento copie da far girare in non più di cinque o sei piccolissime librerie di minuscole cittadine di provincia; parlo di quella ristrettissima cerchia di scrittori che tutti, costantemente, nominano in un qualsiasi discorso che riguardi la letteratura e i romanzi nostrani in generale, quegli scrittori che davvero contano e giganteggiano nel dibattito culturale italiano grazie alla forza delle loro opere – non quei quattro disgraziati che escono con libricini insulsi di cui si parla un mesetto scarso e poi niente, cadono in oblio. Svaniti. Inesistenti. Chissene frega. Io punto al massimo. All’essere un Gigante.
Ho scritto sei romanzi negli ultimi due anni. Il primo, “Gelidi inverni”, l’ho scritto in tre giorni, sotto l’influsso dostoevskiano di “Delitto e castigo”, che avevo appena finito di leggere. Dei sei, credo il mio romanzo migliore: ispirato, furioso, stilisticamente elegante. Un thriller di atmosfera paranoica e incedere sofisticato. Tanto l’entusiasmo, appena finito di scrivere, che il giorno dopo ho cominciato a mandarlo, via e-mail, a tutte le case editrici che conoscevo, senza nemmeno rileggerlo. Ma ero sicuro che non sarebbe servito. Era perfetto: un testo perfetto. E lo è tutt’ora. Ne sono convinto.
Nessuna risposta. Zero. Ricordo di essermi scoraggiato e non poco. Non ho mangiato per una settimana. Questa è la verità. Mi è pure andato sul cazzo il povero Dostoevskij. Anche lui un gigante, ma il mio romanzo non era – e non è – poi così distante dal suo. Al limite, diverso. Ma scemo io ad aver pensato che qualcuno potesse credere che un perfetto sconosciuto sia in grado di… Come dire: danzare con gli Dei. Ecco. Danzare con gli Dei. Ti pare che uno sconosciuto…
Un mese dopo, al termine di un periodo in cui ho provato la nausea persino nel leggere, chessò, un depliant pubblicitario, capito sul famoso blog per scrittori esordienti Pagine d’Inchiostro – paginedinchiosto.altervista.org. Un post dell’instancabile, generosissimo Michele Corato, webmaster e amministratore del sito, parlava di come un gigante della letteratura moderna, nonché delle lettere americane di inizio ‘900, ovvero Jack London, l’autore de “Il richiamo della foresta”, “Martin Eden” e “Il vagabondo delle stelle”, consigliasse come, in un articolo apparso sulla rivista The Writer, proprio a inizio secolo, per farsi un nome nell’ambiente letterario servissero tanta costanza, tanto studio e tantissima determinazione – ai limiti dell’ossessione, cosa che a me non fa assolutamente paura.
Sfiduciato, depresso com’ero, quella lettura – per la quale ancora oggi ringrazio il solerte Michele Corato – risultò per me l’antidoto al veleno dell’indifferenza che le case editrici, tramite il loro insopportabile e assordante silenzio, mi avevano somministrato.
Tra un incoraggiamento e l’altro, il mitico Jack London, a metà articolo, come riportato dal buon Corato, ti piazza lì una soluzione pratica, un insegnamento, direi quindi un metodo, che ogni aspirante scrittore, una volta letto, non può far altro che seguire – e, se non lo fa, be’, è semplicemente un pazzo. Jack London dice: datevi tre mesi e scrivete un romanzo, facendolo al massimo delle vostre capacità. Ogni giorno, vi mettete alla scrivania, battete sui tasti e cacciate fuori – oddio, mi pare – le migliori mille parole che potete. In questi tre mesi, almeno uno di essi, ma spezzato tra un periodo di lavoro e l’altro, dovrà essere di riposo. In tre mesi, avrete il vostro romanzo. Dopodiché, si spedisce. Nessuno risponde? Un mese di riposo e di studio, e poi via, testa china, se ne scriverà un altro. In un anno, avrete ben tre romanzi con cui tentare la fortuna e presentarvi al grande Circolo degli Scrittori. Logico, semplice, lineare. Pazzesco. Geniale.
Cammino nel buio e il ronzio grave e ovattato continua a rombarmi nelle orecchie. Mentalmente passo in rassegna tutti i romanzi che ho scritto finora, tutti puntualmente ignorati: “Gelidi inverni”, dai, sì, il più bello; “I tre farabutti”, un divertentissimo tentativo di riscrivere in chiave comica “I tre moschettieri”; “Z”, l’autobiografia immaginaria di Émile Zola, dove alla fine si scopre che lui in realtà è un vampiro – forse, non so, questo il meno riuscito…
Mentre penso a come sta procedendo il settimo romanzo, quello che sono sicuro, sicurissimo, mi aprirà finalmente la strada, mi consegnerà le chiavi del Circolo, farà parlare di me tutti quei coglionastri degli addetti ai lavori che vedo blaterare del nulla, sì, del nulla che spacciano per libri di qualità, altissima letteratura italiana, e invece sono soltanto pacchi di merda prodotti dai loro amichetti e dei loro assistiti, perché è questo, di questo si tratta, mentre insomma continuo a camminare a passo svelto ma senza sapere dove – metto il piede in una buca, mi si storce la caviglia, perdo l’equilibrio e cado in terra. Stavolta le bestemmie le caccio a gran voce, perché devo dare sfogo a una frustrazione indicibile, direi quasi ineffabile. Quanta rabbia. Questa rabbia. Questa rabbia! È di questa rabbia che ho bisogno. Adesso mi alzo, corro a casa, mi metto al portatile e scrivo finché il romanzo non è finito. In barba ai tre mesi. Lo scrivo tutto d’un fiato. E questa volta, se nessuna casa editrice mi risponde, giuro, davvero lo faccio, comincio a presentarmi di persona, portone per portone, campanello per campanello. Lo faccio. Spendo tutti i soldi che mi rimangono in biglietti del treno, ma lo faccio. Stavolta non posso fallire. Altrimenti vado di persona. Ma tanto non fallisco. Stavolta le chiavi del Circolo me le consegnano su un cuscinetto di velluto rosso.
Foto di Copertina realizzata da Stefano Felici