Mercuriales di Virgil Vernier, o sulle eleganti meccaniche della periferia
Les Mercuriales, le due torri gemelle che sovrastano il cielo di periferia di un’anonima cittadina francese, fanno da sfondo alla storia di tre giovani donne, in bilico tra degrado, eros e noia.
Un film di Virgil Vernier
Cast: Ana Neborac, Philippine Stindel, Jad Solesme, Annabelle Lengromme, Sadia Niakatè.
Durata: 108 min.
Luogo: Francia
Anno: 2014
Non le pale del Moulin Rouge, ma due torri di Bagnolet svettano sulla periferia.
Lì sotto si incrociano le vite di una moldava, una francese e di alcuni ragazzi. E non si tratta di una barzelletta, ma di una realtà candida mossa dall’eros e dalla volontà di superare la noia.
Leggendo le recensioni del film in rete, si sottolinea il degrado della periferia e la noia. A dire il vero, noi non siamo d’accordo. Il film è un mostro. Ben definito in ogni ripresa. Anzi, a guardarlo bene, i protagonisti che svolgono una vita sincera e sexy, sembrano enti all’interno di un corpo. Sembra di vedere un film di Cronenberg, ma al contrario e questa prospettiva eccita e motiva la visione.
I palazzi fatti di vetro, le mattonelle, i disegni delle bambine, tutto è un requadrage. La teoria del tutto sembra spiegarsi anche in una periferia francese nonostante il suo lassismo. Le persone si muovono come demoni sotto la pelle del mostro che respira ed ecco tutto ritagliato, inquadrato e vissuto.
Meglio che una docu-fiction! Certo, è un film drammatico che tende al sentimentale, eppure pare un biografico. Visto con una lente diversa, le inquadrature iniziali e molto sagaci della videosorveglianza potrebbero essere il cervello di questo essere, oppure chissà il suo occhio privilegiato.
Il ritmo vertoviano del montaggio attacca lo sguardo al video, nonostante poi, non accada nulla di particolare.
Donne che vanno in piscina, festeggiano, si truccano, si baciano al parco con i ragazzi dopo averli corteggiati non motiverebbero alcun intuito a restare a guardare e invece, la regia – “tutta femminile” – di Virgil Vernier – emoziona e merita un plauso.
La soglia dell’attenzione del regista è altissima nei confronti dell’ambiente tutto. Probabilmente, il suo essere stato anche attore, lo ha posto dinnanzi a una questione più che filmica, quasi morale del trattamento dell’essere umano all’interno di uno spazio urbano.
Il suo film rispetta ciò che è alla base della Land art e cioè che la cultura è un mezzo per rispettare la natura.
E quindi, la semplicità delle azioni di questi esseri umani, in relazione a uno spazio così definito e speciale, non sono che protagoniste e superano ogni verbosità della lotta di classe.
La solitudine e il vuoto sono, forse, modi per emanciparsi nel reale, più che qualcosa di cui e per cui soffrire.
C’è tempo di discutere se una donna che si mette in mostra sia o meno una prostituta. Un tema che emerge in un dialogo tra una francesina adorabile e un prete, che sembra un film nel film.
Non c’è la desolazione torrida di Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino. C’è la periferia, ma c’è un centro. Un centro che si fa quasi messianico quando appare il gufo sul finire. Un centro che, quindi, non rischia di perdersi e trovare la sua tangente, neanche col crollo meraviglioso del palazzo.
Lo spettatore osserva con il punto di vista delle nostre protagoniste. Resta affascinato da quella terra che cade, la luce che penetra il grigio, la vita che resiste in una stanza che non vuole concedersi al crollo.
Un film capolavoro.
– Veronica Pacifico
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Foto di copertina per gentile concessione del TorinoFilmLab