Land Grabbing, la nuova frontiera del colonialismo
Il land grabbing, letteralmente ”accaparramento delle terre”, è un fenomeno che investe questioni geopolitiche ed economiche a livello mondiale, in cui multinazionali, governi e industrie agroalimentari dei Paesi sviluppati si appropriano dei terreni più fertili dei paesi poveri attraverso l’acquisto, o l’affitto a medio e lungo termine, di ampie porzioni di territorio a fronte di indennizzi irrisori, quando non gratuitamente.
Divenuta una vantaggiosa forma di investimento per le multinazionali dell’agro-alimentare finalizzata al profitto, il land grabbing ha cominciato ad affermarsi già dagli inizi del secolo come strumento commerciale in grado di smuovere ingenti quantità di capitali e di ridefinire intere aree di produzione nella scacchiera globale.
Questa pratica, indicata come foriera di sviluppo economico e occupazionale dalle multinazionali e dalle lobby dei governi interessati, è stata giustificata con la necessità di far fronte alla crisi alimentare ed energetica mondiale, ad esempio attraverso la sottrazione di terreni fertili all’agricoltura destinata all’alimentazione per garantire la produzione di biofuel.
Grazie all’impegno di associazioni internazionale come FAO o Grain, oggi il land grabbing è riconosciuto come un fenomeno di “sfruttamento di risorse locali a beneficio delle grandi multinazionali e delle società di investimento che ha portato miseria e povertà nei Paesi in cui sono state attuate monoculture su larga scala” (Calabar Declaration). In effetti, la maggioranza delle monocolture è gestita da multinazionali che controllano le sementi a livello mondiale, come la Monsanto. Tra l’altro, le tecniche di semina impiegate prevedono deforestazioni, con conseguente perdita di biodiversità e, oltre ad influire negativamente sugli ecosistemi, hanno inevitabili ricadute anche sui cambiamenti climatici a livello globale. Gli effetti sono negativi anche dal punto di vista socio-economico per le popolazioni locali alle quali vengono negati il diritto alla terra e l’accesso all’acqua, che, seppur bene primario resta ancora un privilegio di pochi. Spesso i salari sono talmente miseri da non arrivare a un dollaro al giorno e i contadini sono costretti a lavorare in condizioni disumane e ad acquistare ciò che un tempo producevano.
Land Matrix, il sistema di monitoraggio della International Land Coalition, ha stilato una Top Ten dei Paesi maggiormente esposti a land grabbing, tra cui spiccano quelli legati alle produzioni di beni dipendenti da oscillazioni di mercato come caffè o zucchero. Il fenomeno è ancora in continua crescita nonostante qualche passo in controtendenza, seppur breve, sia stato mosso. E’ questo il caso della Repubblica Democratica del Congo in cui è stato decretato che almeno il 51% delle terre coltivabili nazionali debba essere usato dai contadini del Paese, o da ditte nazionali.
Parafrasando le parole dell’ecologista indiana Vandana Shiva, è necessario sensibilizzare le persone per rendere consapevoli popoli e governi che l’industrializzazione globale dell’agricoltura sta imponendo un sistema basato su un maggiore sfruttamento di risorse e persone. Il biocarburante prodotto sfruttando le piantagioni di palma da olio nei Paesi poveri serve ad alimentare le auto dei Paesi ricchi, ma ciò non rappresenta la soluzione del problema energetico mondiale che resta quella di ridurre il consumo di energia. Così come la crisi alimentare va risolta combattendo gli sprechi e la cattiva distribuzione.
In copertina: foto “Keep Back” di Gavin Fordham. Utilizzo con la licenza CC https://creativecommons.org/licenses/by/2.0/