I fratelli Karamazov di Mauri e Sturno a Siena: una moderna saga familiare di Dostoevskij
I teatri di Siena proseguono con il loro cartellone portando in scena opere di indubbio valore artistico e culturale.
Dal 25 al 27 febbraio a Siena è stata la volta di uno dei capolavori del grande scrittore russo Fëdor Dostoevskij, che intuì come il demonio sia un prodotto totalmente umano. Studioso dell’anima, amante dell’arte e convinto sostenitore della bellezza intesa come salvezza del mondo, lo scrittore nell’ultima opera della sua vita: I fratelli Karamazov descrive le caratteristiche di quattro fratelli, figli di un padre donnaiolo, dissoluto e alcolizzato che volge sempre a suo vantaggio gli avvenimenti.
Nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto essere il primo capitolo di una trilogia, ma Dostoevskij morì quattro mesi dopo la pubblicazione del romanzo, che uscì, come era spesso costume nel XIX secolo, a puntate sul periodico politico “Russkij Vestnik” e, solo successivamente, in volume.
Argomento di numerose riduzioni cinematografiche e teatrali, non ultima quella televisiva del 1969 andata in onda in 7 puntate con la regia di Sandro Bolchi e la sceneggiatura di Diego Fabbri, considerato da tanti intellettuali e artisti del ‘900 come il libro preferito da Papa Benedetto XVI, I fratelli Karamàzov rappresenta sia una saga familiare, sia un affresco storico-politico, sia un libro sulla spiritualità, sia un noir o thriller, che dir si voglia.
La versione teatrale di Glauco Mauri e Matteo Tarasco prodotta dalla Compagnia Mauri Sturno/Fondazione Teatro della Toscana, con la regia di Matteo Tarasco, le scene Francesco Ghisu, i costumi Chiara Aversano, le musiche Giovanni Zappalorto e con (in ordine di entrata) Paolo Lorimer, Pavel Zelinskij, Glauco Mauri, Roberto Sturno, Laurence Mazzoni, Luca Terracciano, Giulia Galiani, Alice Giroldini, ridotta rispetto all’originale, mantiene intatta la capacità di sondare gli animi dei protagonisti evidenziandone le caratteristiche che ci mostrano come il male e il bene siano scelte totalmente umane dettate dal libero arbitrio. Interpretato magistralmente il dramma mostra come il bene richieda sacrificio, pazienza, tenacia, fede, mentre il male appare come la via più semplice e meno faticosa, salvo portare poi a conseguenze inevitabili quando purtroppo non c’é tempo per rimediare.
È noto come Dostoevskij fosse un grande estimatore delle arti, tanto che aveva nella sua casa una copia della Madonna Sistina, che ammirava incondizionatamente, oltre a venire in Italia a vederla restando ore a osservarla, ma molti dei suoi personaggi hanno tratto spunto, oltre che dalla sua vita, anche da opere artistiche dove, come in questo caso, i protagonisti dei dipinti danno la sensazione di essere sospesi fra il bene e il male con la possibilità di scegliere la strada da seguire.
Così sembra che sia avvenuto per il personaggio di Smerdjakov, il figlio non riconosciuto di Fedor Pavlovich avuto dalla “Smerdjashaya”, assunto come servo. Apparentemente il meno interessante dei figli, ma colui che di fatto rappresenta la chiave di tutto il romanzo. Il pittore Kramskoy ha realizzato un meraviglioso dipinto denominato Il contemplatore. Qui è raffigurato un bosco d’inverno, e nel bosco, lungo la strada, è dipinto un giovane contadino solitario, con un caftano a brandelli e dei sandali di corteccia di tiglio. Il giovane è assorto nei suoi pensieri, non parla, non sappiamo quali sono i suoi pensieri e di fatto potrebbero essere buoni o cattivi. Alla stessa stregua di ciò che fa Smerdijakov, l’ultimo dei figli, il meno interessante, il più taciturno è indecifrabile che tutto vede e tutto sa.
I tre fratelli che sembrano avere una parte più importante e definita sono infatti Dmitrij, il maggiore, avuto da Adelaida Ivanovna Mjusova, una fanciulla di temperamento romantico che aveva accettato di sposare il vecchio Karamazov per potersi liberare da un ambiente familiare dispotico, non per vero amore, tanto che abbandona il marito e il figlioletto Dmitrij, che viene allevato in casa dal servo Grigorij . Sarà proprio Dmitrij ad essere accusato di parricidio. Fin dall’inizio appare irruento e in competizione con il padre a causa di una donna, la Grušenka. Poi c’è Ivan, il fratello di mezzo, colto, filosofico, sempre intento a porsi domande, predicatore di una teoria ateista che ritroviamo nel racconto La leggenda del grande inquisitore e Aleksey, il fratello devoto, religioso, che rappresenta lo stremlenie o aspirazione verso il bene e la purezza d’animo. Ivan ed Aleksey sono figli di Sofija Ivanovna, dolce e bella, che, a causa del comportamento rozzo e insensibile del marito, diviene una klikuša, cioé una donna affetta da una malattia nervosa caratterizzata da convulsioni, urla e da una sensibilità religiosa molto acuta.
Nel testo sono presenti riferimenti autobiografici, soprattutto per ciò che concerne la figura di Alyosha, il figlio di 3 anni di Dostoevskij, morto nel 1878 per una crisi epilettica. Motivo che indusse lo scrittore a visitare il monastero di Optina dove si dedicò a profonde riflessioni di natura religiosa. Aleksey rappresenta colui che l’autore avrebbe voluto divenisse il suo piccolo sfortunato Alyosha e la figura del “santo” Zosìma è la copia della personalità di Elder Leonid, un monaco venerato a Optina. Secondo alcuni critici letterari il dissoluto Fëdor Pávlovič Karamàzov rappresenterebbe la Russia zarista corrotta e decaduta, che può riscattarsi, come del resto ogni individuo, soltanto attraversando la sofferenza e l’amore e affidando il futuro all’innocenza dei bambini, gli unici ad essere capaci di portare alla gloria la nazione. Per bambini si intendono anche le persone con il cuore puro, come lo è Aleksey.
In tutta l’opera Dostoevskij lascia emergere la sua fede religioso e traccia il percorso della spiritualità come l’unico valido modo di camminare sulla strada della vita. Per questa sua visione fu accusato di moralismo, tanto che prima di morire scrisse:
Non è come un imbecille qualsiasi (fanatico) che io credo in Dio. E quelli là vogliono insegnare a me e ridono della mia arretratezza!
In realtà la sua opera appare ancora molto moderna, con la visione del demonio totalmente umana e la teoria del libero arbitrio, che gli attori della Compagnia Mauri e Sturno riescono a far emergere, costruendo i dialoghi su dubbi, domande, ricerca nevrotica di risposte, disprezzo, rancori, stupri, ricatti, prostituzione dove risplende di purezza solo la figura di Aleksey o Alyosha, che, in qualunque modo lo si chiami, rappresenta il bene e il bello. La grandezza dello scrittore russo sta nel descrivere senza mai porsi al di sopra giudicante. Il grande attore Glauco Mauri scrive:
Dostoevskij non giudica mai: racconta la vita anche nei suoi aspetti più negativi con sempre una grande pietà per quell’essere meraviglioso e a volte orrendo che è l’essere umano. La famiglia Karamazov devastata da litigi, violenze, incomprensioni, da un odio che può giungere al delitto, oggi come oggi appare, purtroppo, un esempio di questa nostra società così incline all’incapacità di comprendersi e di aiutarsi. Anche il sentimento dell’amore spesso viene distorto in un desiderio insensato di violenza. Così sono i Karamazov. Così siamo noi? Ma Dostoevskij è un grande poeta dell’animo umano e anche da una terribile storia riesce a donarci bellezza e poesia.
– Paola Dei
Critico Teatrale ANCT e Critico Cinematografico SNCCI
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Photos: Courtesy of Teatri di Siena
Foto di copertina: Filippo Manzini