Huic ergo parce, Deus
Parlava di suggestioni personali e traduceva da cani anche le sue più basse intenzioni. Indossava un vestito di Moschino nero fatto di reggiseni, lei che girava per casa con una canotta mezza strappata perché le si vedesse il petto. Le si vedesse il petto sempre, in continuazione perché credeva di essere la più sexy così, che neanche le donnacce francesi del Moulin Rouge. Non il film!
Credeva di essere la più porca, ma anche la più suora. Credeva di essere la più colta, ma anche la più semplice. Credeva nel suo vestito di Moschino di profumare di donna, ma era sudore.
Credeva di avere un odore, e invece era l’amore per chi tace.
Omertà era una troia delle più acclamate, diceva lei a se stessa perché non sapeva cosa fosse uno sguardo. E quei poveri lazzaroni che ascoltavano le sue novelle, scambiavano l’autorappresentazione di lei per consigli e abboccavano e restavano sempre a stomaco vuoto. Come mai?
In un vortice di non-sense, si veniva trascinati nel più basso e iniquo mondo di folli esaltati vittime e suore marce, ma lei, lei – Omertà – faceva quel ghigno che lei credeva fosse una risata coinvolgente, che neanche un bambino.
La censura sola, le voleva bene. Si rifiutava sempre di scendere a patti con la logica.
E ciò non bastava a placare il teatrino di colei che temeva di esser sul palco, perché il palco non era che una prigione in confronto alla vastità dell’esistenza da cui rifuggiva.
Bastava vestirsi Moschino. E quando ti avrebbero scoperta, scegliere il restyling per una madre, una figlia, una sorella, un’amica modello, magari un grembiulino per fare una torta mimosa. Ualà!
Ci fosse stato un modello, poi, l’avrebbe scopato sino all’osso per non sentire niente.
Gli uomini non eran uomini, le donne, figuriamoci, tutte invidiose di lei che puzzava di uovo sodo quando andava bene. Persino i froci, si diceva scopassero persone e animali fantastici in luoghi impensabili che lei conosceva molto bene. E tutti si fidavano.
Era il menù della bella e brutta vita, l’equilibrio perfetto di puzza ed eleganza cinese rosso nera.
Il suo cane a due teste miagolava con lo sguardo alienato a tutti gli invitati alle cerimonie della sua pompa magna.
I peli si attaccavano al nero del lutto di chi era stato raggirato, di chi pensava di aver trovato una amica silenziosa e capace, e aveva donato in pasto la propria vita a una cagna infuriata si, ma sottomessa.
Magari sarebbe arrivata con l’astuzia a leggere questa storia e a misconoscersi. Ma se si fosse riconosciuta sarebbe stata là per attendere il premio Petrolini, di verde si sarebbe vestita!
Si dice che una volta un’anziana le disse che avesse dipinto la sua stanza di un colore e quella, Omertà, entrò in stanza per controllare perché era anche critico d’arte.
Non che la stanza fosse tutta tutta colorata, ma per l’anziana quella candela o quella madia rappresentavano il suo tutto con quel colore, anche se il resto era nero.
E Omertà, rosso nera come una vespa strafatta di LSD, andava a dire in giro che nella stanza della signora non avesse poi visto quel colore.
Fingeva di piangere mentre lo faceva.
L’anziana signora, nel tempo, fiorì in uno splendido meriggio d’estate. Nessuno ne sa più nulla.
Omertà era la clava ai tempi dell’esplosione della cultura dei social. I tempi in cui si comunicava con la luce e non ci era arrivata, era un po’ tonta e tonda, prima che si sposasse con Bugia, ma questa è un’altra storia e chi scrive non è Malvagità.
Omertà, dicevo, dava consigli per apparire buona, ma sapeva sempre di essere sopra ogni cosa. Copriva il mondo come la bruma in certe sere di novembre nelle città accanto al mare.
Omertà si vantava di credere che l’uomo debba specializzarsi in qualcosa, ma a parte inculare la gente, non si sa di cosa fosse capace, sul serio, lei.
Diceva che aveva visto un pc una volta e per questo, avrebbe potuto amare tutti gli hacker del mondo.
Ma era, forse, solo un poco stupida?
O pigra?
O soffriva così tanto da non rendersi conto di tutto quello che uscisse da lei?
Perché si sa che del suo dolore facesse vanto.
Tra i suoi uomini pavone c’era un ‘drullo’, un cyber bullo, uno stronzo per dirla molto breve.
Lui aveva una qualche forma di potere e lei, per questo venerando ragazzo, provava un grande affetto basato sul nulla.
A Omertà piacevano gli uomini di potere, di che potere si trattasse non si sa.
Sta di fatto che a lei, lui, le piacesse un sacco e che l’avesse giustificato per le sue magagne perché aveva il potere di ferire gli altri senza un motivo.
OH, che tenerezza! Ecco il suo modello. Risparmialo Signore, non sa quello che fa, ma se ti uccide, lo fa una volta sola.
Omertà rideva con quel suo ghigno da ignava, eh si, veniva proprio dal basso, come un richiamo sessuale.
A Omertà, però, il tono della voce era serio quando ti diceva che in fondo del cielo non importava niente, se poteva contare i moscerini attaccati al suo vestito rosso nero.
Non sapeva soffrire, non sapeva amare, odiare, non sapeva aspettare, desiderare, agognare, tollerare, perdonare, rinfacciare, no lei, Omertà, non sapeva fare niente. Ma sapeva fare tutto meglio di chiunque altro.
E come diceva il suo amico drullo, se lo fai ed è colorato, sarai più amato.
Questa non è una storia di razzismo.
–Veronica Pacifico
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