Django Reinhardt est intemporel!
Quella notte Porte de Clignancourt lo aveva inghiottito nel suo ventre, la deliziosa musica saliva in superficie dalle sue balere perverse, mentre le note del suo banjo e l’alcool si mescolavano in egual misura, impastando mente, sfocando corpi e annebbiando ricordi. Ma non quella notte, quella notte Django l’ avrebbe ricordata per sempre.
La citè zingara, immobile e nera, sembrava fare da guardia al confine nord di Parigi, Django la stava attraversando chino sotto il peso dello strumento, con il fiato corto e il passo incerto. Bella aveva smesso di aspettarlo, il carrozzone era avvolto nell’ombra, la candela rischiarava quel che poteva, il sonno e il pastis fecero il resto. Inciampò, le fiamme in poco tempo avvolsero tutto, portando via due dita a Django e i capelli di Bella.
I 18 mesi di riabilitazione che seguirono furono come una seconda infanzia, non più il Belgio, dove era nato nel 1918, ma ormai la Francia aveva preso in adozione lui ed i suoi cugini, le lezioni dei musicisti manouche gloriosamente sconosciuti, che tanto lo avevano affascinato nei suoi primi anni tornarono ad essere di grande attualità per riuscire a padroneggiare la chitarra.
Era analfabeta nella vita così come nella musica, non sapeva cosa fosse una scala musicale e non fu mai capace di leggere uno spartito, per questo inventò da zero una tecnica che potesse permettergli di eseguire, con l’utilizzo di un solo dito, una scala cromatica (rullata di scala cromatica, n.d.r.). Inventò nuove diteggiature per gli accordi di sesta-nona con le due dita atrofizzate fondendo poi lo stile del suo popolo con la passione per il jazz d’oltreoceano (Duke Ellington, Louis Armstrong, Art Tatum). Nasceva così il gipsy jazz. Nasceva così Django Reinhardt.
Il Palm Beach di Cannes, La Boite à Matelots di Parigi… Il 1934 invece fu la volta di Londra con l’ orchestra di Jean Sablomdove per la BBc, una spola tra diverse orchestre e club che ne apprezzavano i virtuosismi tecnici. Finché arrivarono gli anni dell’Hotel Claridge e del Quintette du hot club de France del quale facevano parte, oltre a lui e suo fratello Joseph Reinhardt, il bassista e amico Luis Vola (che già nel 1928 aveva introdotto Django alle sonorità Jazz), il chitarrista Roger Chaput e, al violino, l’amico Stephane Grappelli con il quale Django condivise gran parte della sua vita artistica e privata.
Gli anni ’30 sembravano seguire le note del quintetto, tensione e leggerezza si alternavano dando alle improvvisazioni una solennità che non apparteneva di certo al loro modo di fare musica.
Django firmerà i suoi lavori più conosciuti con il Quintette, perfezionando una volta per tutte la sua tecnica sviluppata attraverso un inspiegabile processo intuitivo, fatto di fughe, tremolii e note spezzate (le pompe, n.d.r.) in tutta il suo debordante romanticismo artistico al quale lo stile più asciutto di Grappelli faceva da contraltare, bilanciando i suoni dell’hot club e regalandoci così brani come “St. Louis blues” o “Minor swing”, un successo anche commerciale oltre che un capolavoro del jazz. O come la reinvenzione di “Night and day” di Cole Porter, oppure “Nuages” del 1940, un’istantanea in musica di una Parigi scossa dalla guerra, con un Quintette orfano di Grappelli e Reinhardt con un piede negli Stati Uniti ed uno nel secondo conflitto mondiale.
Uno degli ultimi progetti entusiasmanti risale al 1949, durante il suo soggiorno a Roma insieme all’inseparabile Grappelli. Qui, Django assolda tre jazzisti italiani e negli studi Rai di Roma registra oltre 60 brani. Morirà quattro anni dopo, il 16 Marzo del 1953 nella sua Samois Sur Seine per una aneurisma celebrale, improvvisamente, come una quarta nota spezzata in stile manouche poco prima dell’ ingresso del violino di Grappelli o il basso di Volà.
Manouche, bohemien, parigino, belga a Mon Matre o in qualche bettola maleodorante fu sempre lui, l’istrione capace di attirare su di sé l’attenzione degli artisti jazz del momento per poi farsi attendere per più di 30 minuti al Carnegie Hall di New York da Duke Ellington in persona, presentandosi poi senza chitarra. Inspiegabile nella vita così come nella musica, ancora oggi quelle note restano avvolte da un mistero degno delle suo origini nomadi.
COSA RESTA OGGI DI QUESTO GENIO DEL JAZZ?
Jeff Beck lo definì ‘quasi sovrumano’. D. ha influenzato artisti come B.B. King o come Jerry Garcia e Tony Iommi (oltre alla musica avevano in comune con lui malformazioni alle mani, n.d.r.), legando per sempre il suo nome a quello di un preciso stile musicale. Il grande artista vanta ancora su un seguito di estimatori ed emulatori ancora piacevolmente accecati dalla sua luce irripetibile. Negli anni sono nati nel mondo hot club a lui dedicati a testimonianza dell’intramontabile attualità di questo personaggio e della sua arte. Non è raro oggi fare capolino in un locale dove suonano musica dal vivo, anche in località tra le più disparate del globo, e avere la fortuna di sentire le note che lo hanno reso celebre. Magari vi è già capitato, proprio mentre stavate sorseggiando un bicchiere di immancabile pastis.
Anche il mondo del cinema non è di certo rimasto indifferente di fronte al grande artista, brani come “Body and Soul” e “I’ll see you in my dreams“, sono tra i preferiti da Woody Allen nella commedia “Stardust Memories“ del 1980.
Lo stesso Woody dedicherà al jazzista nel 1999 “Sweet and lowdown“ un falso documentario (o mockumentary) nel quale la vita del protagonista Emmet Ray (Sean Penn) ripercorre quella dell’artista Tzigano accompagnandolo con brani originali come “When Day is Done”, “Avalon” e “Liebestraum No.3”.
Se da una parte “Chocolat“ del regista Lasse Hallstrom non poteva che scegliere Reinhardt nelle musiche per accompagnare Juliette Binoche e Jonny Deep, trovare “Minor Swing” tra i mondi di “Matrix“ con Keanu Reeves dà una dimostrazione empirica della sua trasversalità, con sonorità che in entrambi i casi si muovono con destrezza nonostante ambientazioni e storie che lascerebbero immaginare il contrario.
La sua universalità non è passata di certo inosservata ad un occhio attento come quello di Etienne Comar, che dopo aver prodotto film come “Uomini di Dio” (2010) o “Timbuktu” (2014) del quale è stato anche sceneggiatore, decide di sedersi dietro la macchina da presa e presentarsi al 67° Festival Internazionale del Cinema con “Django”, un biopic sulla vita dell’ artista che impressiona per l’ottima interpretazione di Reda Ketab nei panni del protagonista e del suo travagliato trascorso durante gli anni della seconda guerra mondiale. Amato per la sua musica odiato per le sue origini il regista tocca corde come quelle dell’integrazione, del multiculturalismo, argomenti ancora oggi di grande attualità, mettendo in luce così, oltre alla grande capacità artistiche, le origini nomadi dell’autore che se non fosse stato per il suo innato talento avrebbe tragicamente subito lo stesso trattamento riservato a molti suoi connazionali.
Il 67° Festival Internazionale del cinema di Berlino ha consegnato l’orso d’ oro a “On body and soul”, Etienne Comar con la sua opera prima ha raccolto buoni impressioni al suo esordio come regista, la musica emozionante e coinvolgente è sicuramente uno dei punti di forza della pellicola, d’altronde cosa avremmo potuto aspettarci quando si parla di Django?
INTANTO IL FILM IN ITALIA SI FA ATTENDERE
La data di uscita nelle nostre sale è ancora da definire. Intanto a chi freme consiglio un pizzico di pazienza e certamente un po’ di buona musica per addolcire l’attesa. Magari è l’occasione giusta per farvi un’idea su di lui, se ancora non lo conoscete bene. O per avere l’opportunità di cambiarla, scoprendo particolari che non sapevate (questo è quello che è accaduto a me…). Django Reinhardt non è uno di quelli che potete mettere in un posto, etichettare. Lui è fuori dai canoni così come fuori dagli spartiti, se siete riusciti a capire qualcosa di lui, della sua vita oltre che della sua arte, è già tanto. Ora avete tutto il tempo, in attesa che il film sbarchi in Italia, di cercarlo, di inseguirlo nei vibrati delle sue corde ad esempio. Di perdervi nelle sue origini nomadi, o di ritrovarlo tra le sue note. Oppure, ancora, di immaginarlo al cospetto di Goebbels armato di chitarra. O di fronte a Duke Ellington senza neanche quella. Oppure di guardarlo mentre tardi con i suoi cugini, tra un bicchiere di pastis e una sigaretta nello sprofondo della città, intona con voce sguaiata brani manouche. Insomma, immaginatelo come volete e, perché no, provate a proiettarvi lì, per un istante, in uno qualsiasi di questi scenari, giusto il tempo di assaporare le sue melodie. Io al vostro posto andrei un po’ oltre, aprirei addirittura bocca per dirgli: “Chapeau, ami!”.