Cultura

La Bottega del Caffè: Michele Placido intepreta Don Marzio nella pièce di Goldoni

 

Applausi scroscianti e prolungati per Michele Placido e per la sua Compagnia, che hanno presentato al Teatro Comunale di Ferrara “La Bottega del Caffè” di Carlo Goldoni.

Bottega del Caffè
© Simone Di Luca
Il pubblico ha gremito ogni ordine di posto in ciascuna delle tre rappresentazioni de “La Bottega del Caffè” nelle due serate del 31 marzo e del 1° aprile e nel pomeriggio di domenica 2. Centoquindici minuti senza intervallo, con la regia di Paolo Valerio, le scene di Marta Crisolini, i costumi di Stefano Nicolao, luci di Gigi Saccomandi e musiche di Antonio di Pofi.

Un mix di ponderazione e fantasia per la ricostruzione del campiello veneziano, uscito dalla geniale ispirazione goldoniana e all’interno del quale si svolge una giornata qualunque durante il Carnevale del 1750 a Venezia. Un tempo in cui il gusto del caffè aveva soppiantato l’acquavite e i veneziani, nobili e borghesi dai più ricchi ai meno abbienti, cominciavano la giornata sorseggiando la nuova bevanda, calda e dall’aroma avvolgente.

Il microcosmo scenico ha preso vita nel dinamismo recitativo degli attori Luca Altavilla, Emanuele Fortunati, Ester Galazzi, Anna Gargano, Armando Granato, Vito Lopriore, Francesco Migliaccio, Michelangelo Placido e Maria Grazia Plos, artefici di un cerchio interpretativo compatto ed energico, in grado di plasmare i diversi personaggi in una bilanciata miscela di misura e irruenza.

Il centro propulsivo dell’azione in “La Bottega del Caffè” è Don Marzio Michele Placido, il nobile napoletano che la penna di Carlo Goldoni tratteggia assegnandogli un carattere intrigante e malizioso, impregnato della propensione vischiosa a insinuarsi nel sottobosco delle parole per ricavarne pettegolezzo e maldicenze, capace di osservare le vicende altrui solo dal lato peggiore. Don Marzio è l’istrione dell’indiscrezione e del chiacchiericcio e Michele Placido, che sulle tavole dei palcoscenici di una lunga carriera ha vestito panni shakespeariani, cechoviani, pirandelliani, attribuisce al ruolo una garbata intonazione di uomo del Sud con ironia e corrosività divertita.

L’attualità della commedia

Nella piazzetta veneziana la “ciacola” la fa da padrona e, in una sorta di presepe laico ed inverso, irriverente e profano, le postazioni fisse sono occupate dalla bottega del caffè, da un barbiere e da una bisca, dove i rampolli di una società opulenta e in declino consumano le notti nel vizio del gioco. Sulla scena irrompe nell’ouverture teatrale il gruppo degli attori con il volto mascherato, ma nella “rivoluzione” del teatro goldoniano sono proprio le maschere della commedia dell’arte a cadere per accantonare canovaccio e improvvisazione e cedere il passo al testo scritto e alla caratterizzazione dei personaggi. La maschera qui è anche l’ombra, la menzogna mai interamente risolta annidata nell’indole di ciascuno e nell’interazione fra le parti, che spingono il decollo affabulatorio a dipanarsi sulla filigrana di una ambiguità che accomuna tutti i protagonisti della commedia. Il proprietario della bottega del caffè, Ridolfo, incarna il lato buono della storia, è il paciere e mediatore di intrallazzi di affari e amorosi, il contraltare di Don Marzio, ma respira anch’egli la stessa aria del campiello e gli accomodamenti risentono del nodo di ipocrisia che stringe tutte le cose. Pandolfo è il biscazziere famelico e imbroglione, che verrà alla fine imprigionato, Il conte Leandro è, in realtà, Flaminio, un borgese in cerca di avventure che ha abbandonato la moglie a Torino. Eugenio è il giovane ben nato di una ricca famiglia che sperpera il patrimonio, oltre che un marito felicemente fedifrago. Trappola, invece, è il servitore della bottega, fortemente contrariato dal fatto che “anche i facchini bevono il caffè”.
Un ruolo speciale è quello delle donne che, in fondo, Goldoni tratta con simpatia immettendo in loro i timidi segni di un principio di autodeterminazione più definito in Mirandolina, la primadonna de “La Locandiera”. In “La Bottega del Caffè” Vittoria, per recuperare Eugenio, fa valere la sua dote senza la quale il consorte sarebbe rovinato, la “pellegrina” Placida, per riportare a sé il marito Flaminio, affronta le incognite di un viaggio da Torino a Venezia. Lisaura, l’avvenente ballerina, ingannata da Leandro, aspirante contessa delusa, dirà nel ravvedimento di una seduzione fallita: “Piace troppo a noi donne vivere senza fatica”. Gli ingredienti di un’attuale fiction potrebbero esserci, a ogni modo, tutti e Michele Placido in alcune sue dichiarazioni ha ricordato che secondo Mario MonicelliCarlo Goldoni è il padre della commedia italiana”. Nel 1969, inoltre, il regista e drammaturgo tedesco Rainer Fassbinder scrisse il dramma “Das Kaffehaus“, adattando il testo goldoniano alla sua poetica.

L’omaggio a Ferrara

Entusiasmo e acclamazione hanno fatto dismettere l’abito di Don Marzio e Michele Placido si è rivolto direttamente al pubblico al termine della rappresentazione domenica 2 aprile: “Questa è l’ultima di 120 repliche – ha affermato – e mi sento commosso”. Nominato Presidente della Fondazione Teatro Comunale Abbado di Ferrara, a fianco di Moni Ovadia, che è il direttore artistico, ha, inoltre, annunciato il prossimo appuntamento con la lirica e il repertorio mozartiano il 30 giugno e il 2 luglio, quando al Teatro Comunale andranno in scena “Le Nozze di Figaro”. “Ferrara – ha aggiunto – è una città che ci rende più colti. Ho visitato la Mostra al restaurato Palazzo dei Diamanti sul Rinascimento Ferrarese e la pittura di Ercole De Roberti e Lorenzo Costa. Consiglio di andarla a vedere, soprattutto ai giovani”. Quanto al futuro si mostra ottimista, ma alla domanda se oggi finalmente l’umanità possa avere una chance in più per guardarsi in controluce e orientarsi a vincere il bilico fra bene e male nell’obiettivo di una trasformazione migliorativa Michele Placido risponde:

Sul piano storico-collettivo l’individuo è schiacciato dal potere. Per quanto riguarda le intelligenze dei singoli mi può venire in mente Socrate che, però, in quanto scomodo, una democrazia come quella ateniese con grande finezza ha costretto all’autoannientamento. Platone credeva nell’anima, la nostra parte migliore, intesa, direi, come zona sconosciuta che è dentro di noi e con cui pochi riescono a dialogare. Nella stessa tradizione cattolica c’è l’angelo buono e l’angelo cattivo e probabilmente, per fare un esempio, il fatto che i ragazzini oggi siano così catturati dai cellulari è un sintomo della nostra parte peggiore. Il circuito è quello delle colpe dei padri che ricadono sui figli e così sempre di generazione in generazione ma, se andassimo a ritroso, come nel film “Odissea nello Spazio”, ci ritroveremmo in uno stato primordiale e bestiale con i soli bisogni primari. In millenni di storia c’è stato lo sforzo di costruire una immagine di noi, un’anima, raziocinio, democrazia. Sono affezionato alla figura di Diogene, il filosofo cinico, che se ne andava con una lanterna in mano cercando l’uomo. Non sono, però, pessimista. Da una caverna oltre al dolore si possono dilatare innamoramenti e contemplare le stelle. Questa è la bellezza della vita e anche del teatro che è una scatola magica che fa dire ciò che si vuole”.

Daniela Muraca

Bottega del Caffè
© Simone Di Luca

Immagine in evidenza: © Simone Di Luca – Courtesy of Teatro Comunale di Ferrara