Bartleby lo scrivano: la Wall Street di metà Ottocento va in scena con la straordinaria interpretazione di Leo Gullotta
Luca Ronconi sosteneva che quando gli attori lavorano veramente su se stessi e non sull’idea che hanno di se stessi, riescono a interpretare i personaggi entrando nella loro pelle e non mettendosi soltanto la giacca di colui che interpretano. “È veramente molto scomodo e terribilmente pericoloso lavorare su se stessi… è più benefica la falsità che non una supposizione di autenticità”. Leo Gullotta con grande generosità e autenticità entra nella parte dello strano personaggio di nome Bartleby, protagonista della commedia liberamente tratta da un racconto di Herman Melville del 1853.
Una produzione Arca Azzurra Produzioni, con la regia di Emanuele Gamba e l’interpretazione del grande Leo Gullotta, insieme a Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Dimitri Frosali, Massimo Salvianti e Lucia Socci. Le scene sono di Sergio Mariotti, i costumi di Giuliana Colzi, le luci di Marco Messeri, assistente alla regia Jonathan Freschi, assistente alle scene Valentina Volpi, assistente ai costumi Susanna Fabbrini, Organizzazione Tiziana Ringressi, Amministrazione Valentina Strambi, Cecilia Benelli.
Il titolo originale del racconto è Bartleby the scrivener: A story from Wall Street. Sia il termine scrivener che il termine story evocano il gesto della scrittura e Bartleby diligentemente scrive e, prima ancora di essere uomo, prima ancora di essere uno strambo personaggio che ha deciso di annientarsi, prima ancora di essere qualsiasi altra cosa, è lo scrivano e lo rimarrà per sempre, anche quando deciderà di smettere di scrivere.
Lo stesso titolo inquadra il personaggio dentro una figura archetipica, è Bartebly lo scrivano, non Bartleby, uno scrivano americano o Uno scrivano chiamato Bartleby, o Lo strano scrivano Barylebly, come hanno fatto notare alcuni studiosi del testo. Un archetipo dunque, come se dicessimo Ares il Dio della guerra, o Poseidone il Dio del mare. Lui, molto più modestamente è un ometto sconosciuto divenuto famoso grazie a Melville, ma é anche molto di più.
In un primo momento, Bartleby svolse un’incredibile mole di lavoro. Quasi fosse da lungo tempo affamato di carte da copiare, sembrava ingozzarsi dei miei documenti, rimpinzandosene senza concedersi pause per la digestione”.
Per anni i critici di tutto il mondo hanno cercato una spiegazione su chi potesse rappresentare o essere questa figura scialba e incurabilmente perduta dello scrivano che ha smesso di scrivere. Alcuni hanno intravisto nell’opera un passo del Vangelo, altri un manifesto del surrealismo altri ancora una atmosfera kafkiana, altri ancora hanno cercato un rapporto fra l’avvocato titolare dello studio e il padre, altri ancora cercando fra i casi di cronaca hanno intravisto una somiglianza con una storia accaduta in America. Ma qual’è in realtà il messaggio che il personaggio che ripete irrimediabilmente solo una frase: ”Preferirei di no”, vuol trasmetterci? E cosa significa questo preferirei di no?
I due filosofi francesi Gilles Deleuze e Giorgio Agamben studiando il testo, hanno scritto un interessante saggio intitolato Bartleby, la formula della creazione. Gilles Deleuze ha inserito Bartleby fra i “personaggi folli” di Melville. Agamben ha sostenuto, invece, che tutto ruota intorno alla “scelta del non essere del personaggio”, che giunge nello studio di un avvocato dopo che lo stesso si era messo alla ricerca di uno scrivano. L’avvocato dichiara di apprezzare la discrezionalità, la modestia, la mitezza del personaggio, in netto contrasto con l’irrequietezza degli altri due impiegati. Deleuze a Agamben offrono un’interpretazione articolata dell’ometto, che si accontenta di mangiare biscotti allo zenzero e tonno in scatola e che, all’inizio scrive a tutte le ore senza sosta, fino a decidere di smettere di punto in bianco e stabilirsi nello studio dell’avvocato, che sembra il suo opposto o, per meglio connotarlo, la sua polarità. L’avvocato infatti cerca una spiegazione a tutto. È verboso, compiaciuto all’inizio, poi irritato e infine intenerito. Non comprende il comportamento dell’uomo o, forse, lo comprende più di quanto non sembri a una prima occhiata.
La felicità corteggia la luce, perciò pensiamo che il mondo sia felice, mentre la miseria si nasconde tenendosi lontana, così pensiamo che non esista”.
Fra di loro ci sono due impiegati che non si sopportano di nome Turkey, tacchino e Nippers, occhiali a stringinaso, una donna delle pulizie Rita, che si intromette nella vita di tutti, e la signorina Ginger, il cui nome in italiano significa zenzero, come il gusto dei biscotti che piacciono a Bartkeby.
Un gioco di parole e significati surreali che non possono non evocare Ionesco, Beckett e Breton, fino al nostro grande scrittore Buzzati e al drammaturgo Rosso di San Secondo, che ha affrontato il tema della solitudine inserendolo nell’eterno contrasto fra passione e razionalità.
In seguito a una mia inserzione, un bel mattino trovai un giovane immobile sulla soglia del mio ufficio, sebbene la porta, essendo estate, fosse aperta. Rivedo ancora quella figura squallida e linda, penosamente rispettabile, inguaribilmente sconsolata. Era Bartleby”.
Con questa prima impressione l’avvocato, interpretato dal bravo Luca Socci, accoglie lo scrivano nel suo studio. Fino a quando a ogni domanda che gli viene posta Bartleby risponde con: “Preferirei di no, signore”, in tutti i modi possibili e immaginabili. A dare vita al personaggio troviamo uno strepitoso Leo Gullotta che, con poche movenze, con i gesti, con la postura, con gli occhi, che diventano parlanti e ammalati dal troppo scrivere, porta sulla scena l’enigma di uno dei personaggi più straordinari della letteratura americana, che non cessa di far discutere, riflettere, cercare spiegazioni in coloro che vanno a teatro a vedere l’opera. E questo dimostra come siano, soprattutto le opere meno decifrabili, quelle che hanno il grande merito di far discutere maggiormente.
“Vorreste dirmi dove siete nato, Bartleby?” “Preferirei di no” “Allora forse vi andrebbe di dirmi qualcosa, qualsiasi cosa , sul vostro conto?” “Preferirei di no”.
Ma se Bartkeby è un archetipo, la sua individualità in realtà, così come in Nadja di Andrè Breton, oltre a essere un personaggio è qualcosa di più: “Il blocco dello scrittore”. L’impossibilità a procedere, che arriva improvvisa e gli impedisce di andare avanti, come hanno rilevato altri studiosi. E lui, l’ometto apparentemente mite, non può fare a meno che arrendersi a ciò che sente.
Stupisce in un mondo di violenza trovarsi davanti a tanta caparbia mitezza, ma stupisce ancora di più che l’opera susciti tanta curiosità e tanto desiderio di comprenderne il senso, dopo oltre 150 anni dalla stesura originale. E ogni volta, rileggendo il testo si trovano strane coincidenze, indigestione di scrittura e morte per mancanza di nutrimento, un personaggio che si chiama Ginger e i biscotti preferiti di Bartkeby che sono allo zenzero, la donna delle pulizie che pulisce nel pulito.
“I’d prefer not to”.
E intanto l’avvocato attraversa vissuti contrastanti:
Per un essere sensibile, non di rado la compassione è dolore. E quando infine egli s’accorge che tale compassione non può portare alcun effettivo soccorso, il buon senso spinge l’animo a sbarazzarsene. Nulla esaspera le persone di serio intelletto, quanto una passiva resistenza”.
E prima che le luci si accendano… un finale dedicato a tutti, altrettanto emblematico e incisivo:
“Ah Bartleby, ah umanità”
– Paola Dei
Critico Teatrale ANCT e Critico Cinematografico SNCCI
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Photos: Courtesy of Teatri di Siena – © Luca Del Pia