A respectable family di Massoud Makshi, quando la fiction svela i nodi della burocrazia
A Respectable Family, il film del regista iraniano Massoud Makshi già vincitore del premio Directors’ Fortnight a Cannes nel 2012, è stato recentemente ripresentato al TorinoFilmLab. Arash, un accademico, rientra in patria dopo un luogo periodo d’insegnamento in Occidente e ripercorre nella città dove è nato, Chiraz, la sua infanzia negli anni del primo conflitto tra l’Iran e l’Iraq.
Titolo: A Respectable Family
Festival: Cannes Film Festival (Directors’ Fortnight, 2012)
Case di produzione: Firoozei Films, JBA Production
Cast: Babak Hamidian, Mehrdad Sedighian, Ahoo Kheradmand, Mehran Ahmadi, Parivash Nazarieh
Regista, sceneggiatore: Massoud Makshi
Produttori: Mohammad Afarideh, Jacques Bidou, Marianne Dumoulin
Direttore della fotografia: Mahdi Jafari
Costumi: Magdalena Labuz
Editor: Jacques Comets
Titolo originale: Yek khanévadéh-e Mohtaram
Durata: 90′
Iran. Primi anni del conflitto iraniano-iracheno che scorrono davanti ai nostri occhi con immagini di repertorio in cui si urla “Khomeini è la guida!” e “Allah è grande!”. Il torpore di una società durante la Rivoluzione esala dai rapporti sporchi di un clan corrotto.
Un film umido e sofferente nel momento in cui le lacrime di una donna che piange il figlio morto si mischiano al piscio di un bambino terrorizzato che osserva un’equipe di medici eseguire l’elettroshock alla madre dolente.
E ancora. All’alba del film, si vedono il protagonista e un suo parente, lavare la tomba di un giovane martire morto per la patria.
E la coscienza? Forse è sotto i veli delle donne del film, che sin dall’inizio denunciano il male e son picchiate e poi restano incastrate nelle case a pulire sino all’inverosimile e a togliere quell’impurità che è nel cuore di tutti.
Celestiale la scena in cui Arash (Babak Amidian) scarica il water per scacciare uno scarafaggio e nasconderlo agli occhi di una donna che è ossessionata dall’igiene e che lava il bicchiere mille volte e il lavabo, prima di porgergli un bicchiere d’acqua.
Le donne son presenti sempre e sorridono gentilmente e con verità dinnanzi alle brutture e incongruenze del mondo. La loro onestà si riflette negli occhi di un bambino, Hamed (Mehrdad Sedighian) , il cui punto di vista di tanto in tanto, si confonde con quello del fratellastro Arash.
C’è da dire, però, che lui è costretto ad avere a che fare con una famiglia che non vuole mettersi in dubbio ed affrontare i misfatti familiari e ciò peserà tantissimo sul suo ritorno dopo vent’anni lontano dall’Iran.
Questo film è stato in competizione con Cosmopolis e Moonrise Kindom, film che uccidono dolcemente. Qui il gioco si fa subito duro con le immagini di repertorio e la regia di Massoud Makshi che non scherza in rimandi e giochi di riflessi all’interno di una sola inquadratura. Lodevole.
Un film poetico che, attraverso gli occhi di Arash, ci permette di soggiornare per un attimo in Iran degli anni ’80 e soprattutto soffocare con la burocrazia dell’epoca. Il respiro di sollievo è alla fine del film, sublimato in luce dorata sugli occhiali di Arash.
Ci chiediamo, quindi, quale sia la condizione odierna dell’apparato del potere persiano, ma ce ne dimentichiamo subito ritornando al nostro.
Il direttore della fotografia Mahdi Jafari è un maestro nel lasciare tersa la lotta per strada alla luce del sole e a tramutare gli uffici, ignorati dalla popolazione, come cubi di cui si cerca un volto.
Un film che merita attenzione per la sua integrità dinnanzi al degrado più scontato.
– Veronica Pacifico
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Foto di copertina per gentile concessione del Festival di Cannes