Per ora lo chiameremo Natale in Abruzzo
Quando è il mio turno, vengo annunciata come se fossi l’unica, attesa ospite. Io raddrizzo la schiena, che nel frattempo ha assunto una posizione orizzontale in sospensione sulla sedia, ringrazio per l’invito, sistemo il microfono e comincio a ordinare i fogli davanti a me.
In quello stesso momento scopro che sono degli A4 bianchi, non ci sono appunti, vengo colta da una sensazione di gelo che parte dalla punta del naso. Realizzo che non ho la minima idea di cosa cazzo ci faccio lì e del perché mi abbiano chiamata, eppure ho la certezza, puntuale e netta, di avere di fronte una platea ostile. Posso andarmene, e in effetti il mio corpo tenta un timido e inconcludente gesto di fuga; altro, mi ripeto, prova a inventare altro.
Così accartoccio i fogli, centro il cestino a lato del palco con una destrezza che mi scuote, comincio a improvvisare.
Salve a tutti, sono Nina, vivo a Roma, ma sono nata in Abruzzo, oggi è il ventuno dicembre e questi sono i giorni che precedono il Natale. Ognuno ci ha il proprio Natale, ogni Natale è un giorno impresso e ripetuto nella storia familiare e personale di ciascuno.
La prima volta che ho domandato cosa fosse esattamente la festa del Natale avevo 9 anni, ero in classe e mentre la maestra ci dettava i compiti per le vacanze io ho alzato la mano: maestra, ma perché noi ci facciamo gli auguri e ci scambiamo i regali se il Natale è il compleanno di Gesù?
Anche nella mia famiglia, a Natale, si festeggia il compleanno di Gesù, non è che lo conosciamo, anzi è tecnicamente un forestiero, però lo facciamo e basta; questo è un fatto estremo per una famiglia abruzzese, un esempio perfetto di atto di fede e, a suo modo, un’insubordinazione dal rigido maniavantismo racchiuso nella diffidente e impertinente domanda “ma tu a chi appartieni?”
Il Natale è una questione di famiglia e la famiglia, nella mia famiglia, è un dato oggettivo, acquisito come lo è il risultato di uno più uno in algebra. La secca logica di questo assunto è incompatibile con qualsiasi percezione di simpatia o antipatia, un componente della famiglia gode dell’immunità caratteriale: è geneticamente una brava persona. Affrontare l’eccezione metterebbe a dura prova: “Signor Giudice, la difesa chiede la prova del dna”.
Mi sono sempre immaginata la mia famiglia a partire dall’aspirina per curare i sintomi influenzali. La famiglia è il bugiardino dentro la confezione dell’aspirina: sopra, in evidenza, ci sono riportati i principi attivi, mentre a margine, in un carattere minuscolo, quasi illeggibile, gli effetti collaterali.
È una negligenza colpevole perché alcuni possono essere pure gravi: uno di questi, per dire, è la casa al mare del mio analista.
Comunque questa considerazione, a Natale, non ha nessuna importanza, la mia famiglia sfama e non avvelena: uno più uno fa due.
La cena di Natale, a casa mia in Abruzzo, è composta da tredici portate, non ci sono negoziazioni al ribasso praticabili. Preparare tredici portate, dopo l’avvento di Masterchef, equivale a una predisposizione d’animo competitivo-aggressiva della cuoca il cui unico inconfessabile obiettivo è quello di stupire Canavacciuolo per interposte persone.
Al contrario, abbiamo il divieto assoluto di chiudere la tavolata con tredici commensali. Una volta la quattordicesima persona è stata recuperata in corsa, grazie a uno sforzo epico di mia zia; nessuno sapeva chi fosse e io ho capito che, pur di non violare un precetto quasi kabalistico, un abruzzese è capace di una elevazione morale che lo pone appena sotto un gradino a Ghandi, o al festeggiato di Natale.
L’ambiente nel quale ci raccogliamo per il fastoso cenone è addobbato in stile minimalista, i dettagli natalizi sono sobri e contenuti; non è un omaggio alle ultime tendenze in tema di design, la mia famiglia ha semplicemente imparato sul campo che le decorazioni sono, per lo più, una perdita di tempo e degli ottimi contenitori per la polvere.
Durante il passaggio dagli antipasti ai primi e, infine, ai secondi, le tredici pietanze vengono moltiplicate dalla voce della cuoca: nella mia famiglia, l’offerta di un abbondante bis di baccalà in pastella o di risotto ai frutti di mare non può essere declinata. Un rifiuto rimbomba nella testa manco fosse un impietoso no alla domanda “vuoi sposarmi?”. Oltraggioso. Imperdonabile. La richiesta vuoi altro? non ammette infiltrazioni da parte del libero arbitrio, il segno di interpunzione che sembra accompagnare il tono della voce è un falso interpretativo.
Perché a casa mia, in Abruzzo, il cibo è il modo con cui sappiamo accogliere.
L’attenzione con cui ogni ingrediente viene dosato è inversamente proporzionale alla ruvidezza nei gesti e nelle parole; è come se l’incapacità delle braccia di stringere e accarezzare diventasse dentro la farina da impastare una danza leggera.
Così, soprattutto a Natale, le parole che dalla bocca non escono te le ritrovi dritte in pancia dopo averle masticate, avevano la forma di una sogliola gratinata, degli spaghetti alla chitarra, dei caggionetti, o di altro ancora; non è sempre così, ma a Natale funziona.
Con il cibo misuriamo anche le assenze perché se da un lato puoi aggiungere un posto a tavola, dall’altro ci sono sedie che non verranno mai più occupate.
Dal menù natalizio è stata abolita l’anguilla, mia nonna era l’unica a mangiarla, due pezzetti alla brace conditi con un filo d’olio buono, a me ha sempre fatto impressione la consistenza, a lei, invece, la faceva contenta. Nella mia famiglia ricordiamo per sottrazione pure a Natale.
Dopo aver consumato le tredici portate e sovvertito con il bis di antipasti, primi e secondi ogni conoscenza fisico-anatomica dell’apparato digerente, può cominciare l’aperitivo: frutta secca, frutta fresca, dolci, salatini, cioccolatini, eccetera.
Nel frattempo vengono consegnati frettolosamente i regali; nella mia famiglia, una volta superati i dieci anni, il lancio dei doni di Natale è un intermezzo di imbarazzo e frivolezza che non ha nulla a che vedere con la materialità, ruvida e robusta, della terra.
Poi, eccolo puntuale, lo sguardo di compiaciuta indulgenza di mia cugina che si posa sulla scatola della tombola: possiamo farlo anche quest’anno, sembra dire.
Io a tombola non ci voglio mai giocare, non la riesco a seguire e per questo la schifo.
Era il Natale del 2007 quando ho provato a sublimare dentro un discorso di rara sottigliezza il mio personale odio verso la tombola. Mi alzo in piedi, nella mano destra stringo in pugno una manciata di noccioline, schiarisco la voce: allora ammettiamolo, la tombola è un gioco intrinsecamente noioso che costringe a strazianti minuti di inattività cerebrale nell’attesa dell’estrazione di felici numeri per un ambo, un terno e un chissenefrega. Ma soprattutto, lo vogliamo dire che è un gioco spietatamente iniquo? Rimarca solo le disuguaglianze percettive e cognitive tra i partecipanti che non sono sullo stesso livello di concentrazione e capacità uditiva. Dai! Lo sappiamo tutti che ogni Natale nonna è impegnata in una tombolata che si svolge in un universo parallelo dentro la sua testa.
A quel punto, tutti sbarrano gli occhi e io riesco proprio a riconoscere, dal lieve tremore delle loro labbra, l’avvio di un severo contrattacco:“Signor Giudice, la difesa chiede la prova del dna”.
La quiete che preannuncia un epilogo funesto viene rotta dalla voce di mia nonna: “non’ non’ jè’ n’ li vuj’ fà lu tabellon, a me datemi due cartelle, ecco qua li’ solda’ mi’”; per mia fortuna non ci è stata nessuna guerra, me ne sono tornata mansueta a rivestire la sedia e ho tirato fuori dalla borsa, come ogni anno, i soldi che avrei lasciato sul banco.
La tombola, nella mia famiglia, è un componente di famiglia; quella che usiamo ha le cartelle numerate di colore verde, arancione, viola, blu e giallo, i numeri sono riportati in un formato molto grande, per sbarrarli ci sono dei bottoncini tondi, lisci e madreperlati.
Io scelgo sempre le stesse cartelle di colore verde, la numero 13 e 14, non ho mai fatto tombola e questa cosa non lo so se sia statisticamente possibile; di certo, è un caso accuratamente sottolineato: “povera Nina, è da quando è ‘na criatur’ che non tiene fortuna”.
Nella mia famiglia abruzzese, anche a Natale, le osservazioni sono di una concretezza brusca e spigolosa.
Ad ogni modo, tutte le volte in cui qualcuno dice tombola! ha vinto: a casa mia, l’esclamazione tombola! è una scienza esatta, non ha bisogno di essere validata.
Il cenone di Natale, nella mia famiglia, finisce che è molto tardi, io per fare economia lo avevo suggerito di risparmiare sulla tombola, ma non è andata bene.
Quando ci congediamo, ai lati della bocca abbiamo ancora le briciole dell’ultima fetta di panettone, dormiamo poche ore e ci rivediamo il giorno successivo di nuovo seduti a tavola perché a Natale ce lo dobbiamo proprio dire che ci vogliamo bene.
«Il sogno finiva qui, non lo so se venivo applaudita o fischiata.»
«Ed è importante?»
«Un po’. Al risveglio ho pensato che se qualcuno mi chiedesse di scrivere qualcosa su me e sul Natale con la mia famiglia in Abruzzo racconterei esattamente quello che ho sognato. Ma perché qualcuno dovrebbe chiedermi di scrivere una cosa simile?»
«Potrei domandarglielo io: cos’è il Natale con la sua famiglia in Abruzzo?»
«Non ci ho mai riflettuto seriamente, lo eseguo senza pensarci. Il mio paese in Abruzzo, quando me ne sono andata, era diventato troppo stretto; si è lasciato mettere da parte e pian piano mi ha fatto posto. Con il tempo ho scoperto che era lo spazio sufficiente per farmi ritornare tutte le volte che volevo, sempre di Natale. In fondo, io rimango una paesana.»
«Va bene, a lei piacciono tanto le metafore, ne usi una per rispondere alla mia domanda.»
«Mh, il Natale a casa mia in Abruzzo è come il tepore di un camino acceso, ci è una suggestione antica nel rimanere fermi immobili a osservarlo, apprendere qual è la giusta distanza per farlo è un’arte che richiede lentezza e sapienza. Può andare come metafora?»
«Sì, Nina. Allora, buone feste in Abruzzo.»
«Anche a lei, nella sua casa al mare.»
– Sara Mariotti