Amore di Araki. Riflessioni sulla mostra alla Galleria Carla Sozzani a Milano
Si è recentemente conclusa la mostra del maestro della fotografia Araki alla galleria Carla Sozzani a Milano, intitolata “Araki Amore”, con numerose sue opere e tre nuove composizioni di più di 100 Polaroid.
Sarebbe un po’ curioso vedere questa esposizione inconsapevole del corpo di lavoro di Araki, senza aver visto i suoi capolavori: quelli fortemente carnali degli anni 80, come “Tokyo Lucky Hole”, porno-arte-grafici, all’epoca controversi, fino all’arresto del loro artefice, o senza aver vissuto il “Sentimental Journey” – un libro fotografico su sua moglie e sua musa per anni, e, dopo – “Winter journey”, dove affronta la sua precoce morte. Si può cogliere appieno il senso di questa mostra senza aver avuto, poi, contatto con le sue nature morte e con i suoi ritratti dei fiori, dove l’oscillare tra vita e morte si materializza in un composto stravolgente, polposo e viscerale? O senza aver subito l’esperienza delle sue infinite immagini di nuvole, una serie fatta dopo la morte della moglie, scattate dallo stesso punto per mesi?
Da neofita del suo lavoro, potrebbe forse sembrare ardua l’impresa di cercare di comprendere chi è Araki tramite una sola mostra?
Trovandomi li, d’avanti alle stampe, mi sono resa conto che non importa la forma in cui la materia è stata fotografata – l’energia che traspariva era sempre la stessa: quella di un essere umano che con ogni scatto riscopre visceralmente il suo legame con il mondo, si unisce con la realtà e si riproduce tramite la fotografia. E questa carne fusa con l’eternità, sussurra e balbetta in ogni stampa, appesa al muro, potente, inesorabile, incessante, densa, danzante, spassosa. E’ lì – nelle nature morte, nei fiori, nei dinosauri all’attacco, nei fenicotteri con la figurina bondage sulla testa, nei misteriosi e grevi ritratti della danzatrice Kaori, c’è! C’è sempre l’unione di Araki con l’universo (così prolifera, forse, perche è giapponese? Ormai tutti noi sappiamo la risposta) – che ha prodotto la stessa visceralità, spontaneità e il calore in ogni scatto, un viaggio d’amore lungo la distanza tra la concezione e la morte.
Un maestro di Kabuki fotografato da Araki ha detto: “Lui è unico fotografo che conosco che riesce a fotografare tutto quello che c’è davanti a lui.”
A noi non resta altro che ricevere questo dono a occhi spalancati.
Per approfondire ecco il link alla galleria Carla Sozzani: qui
E per comprenderlo ancora piu appieno ecco il documentario “Arakimentari” del 2004: