Il grande ritorno: Munch a Milano.
Quale colore potrebbe avere il silenzio? Quello di un lago da cui una testa affiori in mezzo ai cigni come un ricordo malinconico, o quello del cielo notturno che fa da riparo ai sogni sereni: il blu. Quieto e pensoso, il blu è il colore del raccoglimento, un rifugio dove si può udire il respiro di una forza che dorme nella materia. Il respiro, o forse l’urlo.
Dopo un’attesa lunga quarant’anni, le sale del Palazzo Reale di Milano si sono vestite di blu per accogliere l’eccezionale retrospettiva Munch. Il grido interiore, che ripercorre la vita di Edvard Munch (1863-1944) in occasione del centenario della sua morte. L’evento – che può dirsi il più eclatante dell’anno – è frutto di una collaborazione corale tra il Comune di Milano, il Ministero della Cultura, la Reale Ambasciata di Norvegia a Roma e Arthemisia.
Più di cento le opere selezionate dalla collezione del Munchmuseet di Olso per raccontare la vita attraverso gli occhi del maestro norvegese. Quel grido interiore cui la mostra fa riferimento, più spesso inteso come l’eco di un’esistenza angosciata e inesorabile, di inquietudini e turbamenti, è invece la forza che anima l’esistenza. Un’energia dirompente e nascosta (o forse inascoltata), protagonista di opere come Il grido, in cui scuote, distorce e fonde tutto in un unico vortice.
La mostra milanese presenta il vero volto di Munch: indagatore profondo e sensibile, alacre lavoratore, animatore dei circoli bohémien, ma soprattutto uomo che abbracciò la vita. Una vita invero inclemente, nella quale “non esiste una sola cosa che somigli alla felicità, e che addirittura non osa aspirare alla felicità”. Immerso in una storia famigliare all’insegna del dramma, l’immagine che Munch ebbe dell’esistenza era quella di una trama tesa tra l’amore e la morte, in cui si intrecciano gioia, malattia, passione, tristezza… e avrebbe inseguito quell’immagine per tutta la vita. La sua vocazione, dopotutto, non fu trovare la felicità, ma cogliere la verità della vita; e la possibilità di ricercarla ed esprimerla attraverso la pittura fu per lui ragione di pace.
Una missione simile richiedeva di sondare la propria anima, popolata di immagini imprecise ma vivide, vere, perché impresse nella materia dei sentimenti: “L’arte – diceva Munch – è il sangue del nostro cuore”. Sullo stesso principio prese forma il linguaggio che diede voce a quel grido interiore: vivido, ambiguo, eccessivo. Alla base di una così potente e riuscita espressione artistica fu l’accettazione di ogni parte del ‘Fregio della vita’, poiché tutto – l’amore, il sesso, l’angoscia, la crisi, la sregolatezza – fa parte del gioco, ed ogni elemento è legato all’altro in un dialogo necessario.
Per non interrompere lo stesso dialogo tra i dipinti che affollavano a centinaia il suo atelier, Munch fu sempre restio a venderli (o non a basso prezzo). Il desiderio di Munch, scevro da egocentrismo, era di riuscire nell’intento di donare al mondo una pittura che raccontasse l’umanità. Solo un obiettivo simile poté spingerlo a cercare di far penetrare nelle sue opere quell’invisibile forza vitale, attraverso l’esecuzione impetuosa, e con la cosiddetta “Cura da cavallo”. Con questo nome Munch si riferiva al trattamento selvaggio che riservava alle proprie tele, adoperandole come coperchi per le pentole, camminandoci sopra ed esponendole alle intemperie.
Nella sua avventura ai confini della vita, Munch fu accompagnato dalle amicizie con personalità di spicco – come August Strindberg e Henrik Ibsen – e da donne carismatiche e passionali, prima fra tutte Tulla Larsen. L’intensa relazione con quest’ultima portò il cuore e la psiche dell’artista allo stremo. Ciò non gli impedì di riemergere nuovamente dal dolore, con un ardire che lo accompagnò fino alla fine, quando, brillante sperimentatore, approcciò i mezzi più recenti. La mostra milanese, infatti, ospita anche fotografie e filmati realizzati dall’artista.
La mostra Munch. Il grido interiore sarà aperta fino al 26 gennaio 2025.