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Cento anni dopo, dove tutto cominciò: Turandot alla Scala di Milano.

In prima fila per celebrare Giacomo Puccini nell’anno del centenario della sua morte, il teatro Alla Scala ospita un nuovo allestimento dell’opera che ne siglò la vita e la carriera: Turandot, in scena dal 25 giugno al 15 luglio.
La redazione di E-go Times ha potuto assistere alla prova generale.

Come spiegare la musica di Turandot? E’ un grande affresco impressionistico, che sotto la bacchetta di Michele Gamba sfoggia le sue tinte accese e i tratti decisi. L’orchestrazione di Puccini (alfiere di un linguaggio moderno notoriamente divisivo) si distingue dopotutto per la nitidezza d’insieme. Turandot è una ricetta musicale unica, che dosa il wagnerismo e un meticoloso quanto suggestivo esotismo in un’atmosfera tesa in cui Puccini ha saputo ricavare coerentemente anche pagine dolci e ridenti.

Giacomo Puccini (1858-1924)

Com’è noto, la morte colse il compositore lucchese, colpito da cancro alla laringe, il 29 novembre 1924. La sua eredità cominciò da questo: il finale dell’opera, che la salute malferma e la complessità del soggetto gli permisero solo di abbozzare.
Al dramma della sua scomparsa si sommò, così, il dilemma sull’ultimazione di Turandot. La scelta di Arturo Toscanini e Antonio Puccini (figlio del compositore) ricadde sul napoletano Franco Alfano, chiamato a compiere la delicata operazione. Ciò che rese memorabile la sera del debutto, il 25 aprile 1926, fu il gesto di Toscanini: al termine della partitura pucciniana, il maestro sospese l’esecuzione e congedò il pubblico con la frase «Qui Giacomo Puccini morì».
Nello spirito di quell’evento, lo spettacolo scaligero di quest’anno dedica un analogo momento di commemorazione prima di avviarsi verso il finale dell’opera.

Regia e scene sono firmate da Davide Livermore, con la collaborazione di Eleonora Peronetti e Paolo Gep Cucco. Le intuizioni dei tre hanno perfettamente messo a fuoco l’atmosfera dell’opera. Il sipario si apre su un cupo sobborgo di Pechino, una città che ha dimenticato l’amore e l’ha rimpiazzato col disinganno. In primo piano una bettola, coi suoi loschi frequentatori, e per le strade tuonano i decreti di Turandot, l’algida principessa votata a un’ostinata misandria, che condanna al patibolo i pretendenti dopo aver loro sottoposto tre enigmi.          
Il linguaggio registico di Livermore aspira a una fruizione amplificata che si avvale del mezzo mediatico per estendersi a un pubblico più ampio.
Le cifre del regista danno vita a un allestimento molto ispirato ma caotico: affollamento, sovrapposizione di elementi simbolici, movimento frequente delle scenografie e uso massiccio delle pareti-video (ledwall) rischiano di compromettere la fruizione dello spettacolo.
Gli enigmi compaiono in scena, portati da bambini, sotto forma di cartigli che si dissolvono con una fiammata; trovata tenera e divertente quella del bambino che suggerisce a Calaf la risposta al terzo enigma!  

Ph. Teatro alla Scala / Brescia – Amisano

In sintonia con le scenografie, i costumi di Mariana Fracasso sfoltiscono l’opulenza e lo sfarzo dell’estetica imperiale per trarne un’eleganza giocata su tinte pastello e ibridando linee occidentali e orientali.
Molto ben riuscita l’interpretazione di Anna Netrebko, cui il ruolo di Turandot sembra aver dato l’occasione di affinare l’espressività vocale e fisica.

Anna Netrebko (Turandot) e Raul Giménez (l’imperatore Altoum).
Ph. Teatro alla Scala / Brescia – Amisano

Quanto a volume e dizione, la voce di Yusif Eyvazov (Calaf, in alternanza con Roberto Alagna) è inattaccabile, ma è penalizzata dall’emissione poco controllata e a tratti sforzata, potente ma poco espressiva. Rosa Feola (Liù) si afferma come beniamina del pubblico scaligero, ma il suo carattere vocale risulta poco affine al ruolo di Liù, che è drammatico ma dall’inflessione dolce.

Rosa Feola (Liù) e Yusif Eyvazov (Calaf).
Ph. Teatro alla Scala / Brescia – Amisano

Un plauso particolare spetta alla prestazione del trio composto da Damien Sung-Hwan Park, Chuan Wang e Jinxu Xiahou, interpreti rispettivamente di Ping, Pang e Pong. I buffi ministri imperiali si dividono tra i piaceri, le nostalgie e l’insofferenza per una Cina insensata e in declino. Una prova superata a pieni voti in fatto di padronanza scenica, evidenti invece le difficoltà di sillabazione e coordinazione nei passaggi d’assieme più serrati.

Da sinistra: Chuan Wang (Pang), Damien Sung-Hwan Park (Ping) e Jinxu Xiahou (Pong).
Ph. Teatro alla Scala / Brescia – Amisano

Applausi calorosi ed esultanti hanno accolto sulla ribalta tutti gli interpreti, dal coro ai figuranti; momento di sussulto, subito stemperato dal sorriso, quando Jinxu Xiahou ha messo un piede in fallo nella buca del suggeritore.  

Roberto Gentile